R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

La prima cosa a cui ho pensato prestando ascolto alle note iniziali di questo ultimo album di Eyolf Dale, The Wayfarers, (I viandanti), è stata quella di capire che diavolo di strumento stesse suonando l’Autore. Di primo acchito mi è sembrato potesse trattarsi di un pianoforte ma con una sonorità molto più brillante rispetto al solito. In effetti si tratta di una Hammerspinet, una sorta di fortepiano che da quanto sono riuscito a capire, invece di avere le corde pizzicate come il clavicembalo, ha un sistema meccanico di martelletti che battono su un’unica corda, anziché sulle doppie dei bassi o sulle triple come avviene nei pianoforti normali. Devo dire che nonostante questo tipo di scelta, insieme all’uso della bizzarra lama sonora, The Wayfarers concettualmente non si allontana troppo dal modello collaudato che lo stesso Dale, sia da solo che in gruppo, ha già abbondantemente sperimentato durante il suo percorso discografico. Il musicista norvegese, di solida formazione jazzistica ma comunque egualmente coinvolto empaticamente nella tradizione classica, ci offre uno spaccato dell’odierno stato dell’arte del piano-trio, almeno di quello che proviene dalla Scandinavia. Avvalendosi della stessa ritmica che lo ha accompagnato nel precedente Being (2021) – Per Zanussi al contrabbasso, già presente in Wolf Velley (2016) e Audun Kleive alla batteria – la musica non sembra rilevare alcuna flessione etica rispetto ai cànoni che ci si aspettava. Delicatezza di fondo, suoni che a volte, pur muovendosi nell’ambito del jazz, inclinano maggiormente a un modus levigato e riflessivo ma che diventano pronti ad esplodere in un turbinio di colori caleidoscopici come accade a tratti lungo il percorso dell’album. L’Autore descrive l’estetica di questa musica come la risultante di un viaggio, forse non solo metaforico, attraverso paesaggi interiorizzati sulle cui tappe del percorso ci si può arrestare, sia per immergersi in un meditabondo spleen che per perdersi nella contemplazione di propri intimi simbolismi.

Eyolf Dale è, musicalmente parlando, un pianista pieno di luce propria che tende ad evitare gli impaludamenti delle dissonanze preferendo una scrittura armonica e prevalentemente consonante. Dove Dale esprime il suo massimo non è tanto nei ritmi lenti dentro i quali maggiormente si allinea alla liturgia nordica, ma al contrario è appunto nelle partiture più gioiose e nei momenti in cui le mani avvertono maggiormente l’impulso di sciogliersi lungo la tastiera che si colgono gli elementi di spicco della propria personalità musicale. Un bruilichìo vitalistico che sconfina a volte in un be-bop controllato e la tendenza a non farsi confinare eccessivamente nel periplo di uno specifico “genere” sono tra le caratteristiche più evidenti di questo trio. Numerose sono le citazioni che si possono cogliere – le annoteremo via via con l’analisi delle singole tracce – tuttavia lo stile di Dale, posso affermarlo senza timore di essere smentito, è qualche passo più avanti rispetto a molti suoi colleghi scandinavi. Ed è proprio la luminosità intrinseca dei suoi fraseggi, l’ampio respiro, l’allegria che scoppia improvvisa anche nel cuore di una ballad e la carezzevole malinconia dei suoi momenti più intimi che insieme caratterizzano il profilo di questo autore, peraltro magnificamente sorretto dai suoi compagni della ritmica, in particolar modo dal sorprendente Kleive alla batteria, tanto da farmi sospettare qualche stilla di sangue sudamericano nella sua formazione professionale. Si parte, allora.

Il viaggio di questi viandanti comincia proprio col brano che dà il titolo all’album, The Wayfarers. È raro ascoltare un incipit così gioioso in cui si legga tutta l’entusiastica esuberanza che accompagna l’inizio di un percorso come questo. Un po’ come veder passare dal finestrino d’un treno, con quella ritmica sostenuta – memorabile l’intreccio di contrabbasso e batteria e l’intervento sognante della lama sonora sovraincisa da Zanussi – un paesaggio di fine estate, con i suoi primi colori autunnali ad occhieggiare tra le masse degli alberi e le colline. Direi il brano ottimale per iniziare una giornata piena di promesse perchè la luce è sempre protagonista fondamentale di questo album, sia negli istanti più radiosi che nei momenti più vespertini. Tecnicamente la timbrica della spinetta a martello domina la qualità sonora di questo brano, con una serie di arpeggi cristallini e sfavillanti. Woodland Walk ha una formula inizialmente descrittiva, come una marcia che proceda con cautela tra foreste di alberi alti ed ombrosi. Le note di piano e della ritmica avvertono la cadenza dei passi e qualche timido fraseggio iniziale di tastiera suggerisce l’approccio alla meditazione e l’attenzione ai particolari svelati dal continuo gioco di rimandi tra territorio esteriore e paesaggio interiore. Piano piano la musica prende confidenza e fiducia, Dale si espone in una serie di fraseggi dall’anima be-bop mentre contrabbasso e batteria alzano la dinamica sonora. I temi si mescolano alle improvvisazioni per poi, verso il finale, richiudersi nei climi sommessi con i quali tutto è iniziato. Hidden Treasures si profila con un intimo colloquiare tra piano e contrabbasso. Citazione en passant dell’ellingtoniana In a Sentimental Mood che torna qui e là posizionata ad arte ma in una costruzione di natura ben diversa, fino a quando interviene il brushing della batteria a stimolare l’assolo di Zanussi, molto espressivo e vibrante. Rigogliosa la completezza armonica, le linee melodiche del piano di Dale si esprimono per movimenti asimmetrici con qualche sapore agro in aggiunta durante il suo momento di assolo improvvisato. Ma tutto il trio funzione molto bene e ciascuno dei musicisti sa quando e dove proporsi, evitando sovrapposizioni ed inutili grigiori sonori. Behind the Curtains è puro jazz in grado di soddisfare gli ascoltatori più rigorosi e persino coloro che hanno in uggia la musica d’impronta nordica. In questo brano, dove si ascoltano contemporaneamente sia il piano che qualche intervento di spinetta (probabilmente sovraincisa), si avverte tutta la preparazione tecnica del gruppo che supporta Dale con un grande patchwork ritmico. La personalità di Kleive comincia a notarsi ineludibilmente in una serie di ritmi serrati macinati tra spazzole e piatti. Insomma, ascoltando questo brano a cieco dubito che vi si possa riconoscere l’identità nordica della suddetta formazione triangolare.

A Current Peace of Mind evidenzia subito lo stato serotoninico del pezzo, frutto di una appagante rilassatezza suggerita dai due accordi portanti, un I ed un IV grado che s’appoggiano uno sulla spalla dell’altro. E pace mentale sia, con il fluire di endorfine a pulire la musica da ogni scoria che tuttavia non smarrisce un certo alone di inquieto mistero, nemmeno quando i toni sembrano diventare velatamente più puntuti. Con After the Party avvertiamo il retrogusto di Gato Barbieri nella melodia complessa del pianoforte che entra in un dialogo a due col contrabbasso. L’atmosfera è tranquilla, senza alcun pungolo d’irrequietezza come nel brano precedente, anzi, resta oltremodo investita di un morbido alone malinconico. Mi piace molto l’improvvisazione di Dale, forse anche quando nel suo fraseggio si ritrovano tracce di Bill Evans. Le citazioni sono discrete, accennate, non insistite ma sufficienti a dialogare con l’ascoltatore, aprendo una piccola fenditura nel Tempo e nel ricordo. A Blacksmith’s Tale prosegue nel clima impostato nel brano precedente ma qui è presente la batteria a sfregare il rullante e la melodia pianistica ha un sentore quasi chopiniano accennando ad un valzer prima di rientrare nel tempo intero. Un breve cenno di contrabbasso molto, ma molto discreto e poi l’assolo di Dale, come al solito luminoso anche in un contesto da ballad come questo. The Sky at The Sunset è il brano più sorprendente dell’intero lavoro. Irrompe dopo la rilassatezza delle tracce precedenti con la forza e l’allegria turbinosa di un samba vergato dal suono cristallino della spinetta. Non possiamo non apprezzare lo sforzo di Kleive in questo frangente nel sommergere la musica di una scoppiettante, incontinente smania percussiva che fa completamente dimenticare la Norvegia e ci avvicina col pensiero a Rio de Janeiro. Con Fields of Kyiv – il brano potrebbe alludere alla città ucraina di Kiev – si ritorna ad una sorta di viaggio ferroviario. Il ritmo spazzolato del rullante ricorda l’incedere sui binari e le visioni fuggevoli delle pianure e degli alberi percorse in velocità. Ben presto il paesaggio evoca immagini interiori e da qui l’assolo di piano che inizia con frammenti d’ispirazione molto classica per confluire poi in fraseggi più jazzati. L’ottima ritmica, servendosi anche di una certa fragorosa componente sostenuta dai piatti della batteria – che personalmente mi hanno suggerito l’idea di lampi esplosivi – fa correre il treno dei ricordi riavvolgendo il nastro delle memorie e restituendo la visione di Kyiv in tempo reale. Homestead chiude l’album con un assetto molto melodico, un’assonanza con il Notturno II di Nino Rota, dalla Dolce Vita di felliniania memoria. Come spesso accade nell’album, nel trascorrere progressivo di tutte queste note, gli assetti cambiano e il piano abbandona parte del suo melodismo per impegnarsi in un interessante incrocio ritmico con contrabbasso e batteria.

Quasi un’onda anomala, questo prezioso lavoro di Eyolf Dale. Perché tutto quel bagaglio che caratterizza e identifica la provenienza musicale nordeuropea qui si riduce poco più che ad una leggera panatura di superficie. I brani s’immergono alle ginocchia con influssi piuttosto eterogenei, spaziando dal jazz alla musica classica, facendo percepire comunque non tanto il desiderio di farsi inquadrare in uno stile e in una formula già strutturata, quanto la tensione ad allargare l’orizzonte al di là dei confini storico-geografici. Siamo di fronte a tutt’altro che ad un’opera crepuscolare. Si avverte, anche al di sotto della superficie spesso tranquilla – ma mai troppo! – di ciascun brano, una dinamica inquietudine, come una voglia di ricerca più avventurosa e non solo un bisogno di riflessiva meditazione. Al netto delle possibilità presunte, però, resta il fatto che Dale e compagni pare abbiano hanno spostato più in là il limite dell’espressionismo estetico del cosiddetto jazz nordico, abusato appellativo per indicare qualcosa di apprezzabile che si muova oltre il più tradizionale mondo anglosassone.

Tracklist:
01. The Wayfarer (4:26)
02. Woodland Walk (5:19)
03. Hidden Treasures (5:42)
04. Behind The Curtains (3:06)
05. A Current Peace Of Mind (4:24)
06. After The Party (2:55)
07. A Blacksmith’s Tale (3:27)
08. The Sky At Sunset (3:42)
09. Fields Of Kyiv (5:10)
10. The Homestead (4:28)