C I N E M A
Articolo di Barbara Guidotti
La stanza è in penombra, disordinata. Se avesse un odore sarebbe di aria viziata, satura di sentori di cibo e di sudore. Sul divano siede un uomo enorme, una montagna di carne dagli occhi azzurri, che lì trascorre la maggior parte della propria esistenza, immobilizzato dalla propria mole. Respira a fatica, e per calmarsi nei momenti di panico legge o si fa leggere una tesina su “Moby Dick”. La messa in scena è teatrale, come teatrale è la pièce di Samuel D. Hunter da cui la pellicola è tratta, che ci fa percorrere gli ultimi giorni di vita di Charlie – un professore d’inglese che insegna online -, la cui obesità rappresenta l’approdo di un’esistenza vissuta nell’irrimediabile segno della perdita. Una perdita così lacerante da necessitare una compensazione bulimica che faccia tacere il dolore, la mancanza, il vuoto incolmabile lasciato da un lutto mai elaborato, in nome del quale è stata sacrificata anche la famiglia, e con essa il rapporto con la figlia (Sadie Sink, che dopo la prova in “Stranger Things” si riconferma come una delle più promettenti giovani attrici del panorama cinematografico contemporaneo).

Con l’approssimarsi della fine, riallacciare questo legame infranto diviene per Charlie l’obiettivo supremo per riscattare la propria intera esistenza dal senso di fallimento e di deriva. E lo fa cercando di ricondurre a sé la figlia Ellie – che lo rifiuta con tutto lo sdegno di un’adolescente che non può dimenticare l’abbandono che ha segnato la sua infanzia – accettandone il disprezzo a costo di umiliarsi e accettandola con la cieca fede di un uomo che crede fino in fondo nell’intima bellezza della natura umana.
La storia si dipana rivelando a poco a poco la vicenda di Charlie attraverso indizi, immagini e flashback che ne disegnano e rendono comprensibile la disperata scelta di lasciarsi andare, somatizzando il dolore fin quasi ad annullarsi e scomparire nella propria stessa carne. E nonostante il dilagante protagonista, le altre figure che intorno a lui si avvicendano conservano una propria identità, assolvono a uno scopo: quello di rendere più palpabile la breccia che si può aprire in una vita di reclusione se solo ci si apre ad accogliere l’umanità altrui, con le sue contraddizioni, le sue debolezze ma anche con le sue invincibili risorse.
L’amica Liz, la figlia Ellie, il giovane missionario Thomas, la moglie Mary, si aprono nel corso della narrazione lasciando trasparire ognuno la propria verità, contribuendo a quell’approdo salvifico del protagonista che non può essere rimesso a un Dio che giudica e condanna.
The Whale è una storia giocata sull’intreccio di molti registri e molti temi, che ruotano tutti intorno all’interpretazione di Brendan Fraser.

Si potrebbero usare molti aggettivi per descrivere la sua performance, giustamente premiata con l’Oscar: io scelgo “credibile”. Disperatamente e completamente credibile (grazie anche al magistrale lavoro fatto dal costumista Danny Glicker e dal truccatore Adrien Morot, che ha conquistato il secondo Oscar della pellicola), in ogni espressione e sfumatura – nei momenti sublimi come in quelli ai limiti della sgradevolezza – al punto da far diventare Charlie una persona oltre il personaggio. Di Fraser rimangono gli occhi chiari, attraversati da lampi di una sofferenza che sicuramente non nasce dalla sola finzione, e soprattutto non riesce a soffocare quel nucleo di innocenza e fiducia quasi cieca nell’umanità che rappresenta la vera forza del protagonista. La deformità fisica e l’omosessualità di Charlie basterebbero a fare del concetto di diversità un elemento caratterizzante all’interno della trama, su cui tuttavia si innesta un’altra serie di temi direttamente riconducibili alla sfera dei rapporti interpersonali, dell’amicizia e dell’amore (vissuto su tutti i livelli e a qualsiasi costo, anche quando conduce a scelte estreme e fra loro inconciliabili), della religiosità, dell’onestà intellettuale come scelta suprema. Che non ci si salva da soli è la verità ultima che Charlie ci consegna, nello sforzo disumano di (sol)levarsi oltre se stesso per liberarsi dalla “white whale” che è dentro di lui – dentro di noi? – come summa di ogni debolezza, vergogna, senso di colpa, inadeguatezza che nel tentativo disperato di dissimulare o sconfiggere dimentichiamo a volte di accettare per abbracciare e mostrare una versione più autentica di noi stessi.

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