C I N E M A


Articolo di Mario Grella

Non sembra dare nessun segno di cedimento il filone del metacinema. Dopo The Fabelmans di Steve Spielberg, Babylon di Damien Chazelle, Empire of Light di Sam Mendes, dopo il documentario Laggiù qualcuno mi ama di Mario Martone, Quando di Walter Veltroni, Il ritorno di Casanova di Gabriele Salvatores, e si badi, solo per citare film degli ultimi tre-quattro mesi, ecco l’ennesimo film che parla di cinema, Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti che, tra i film da me appena citati, si piazza sicuramente “secondo” dietro solo all’irraggiungibile The Fabelmans. Giovanni (Nanni Moretti), è un regista, anzi Giovanni è “il” regista Nanni Moretti che sta cercando di terminare un film, ambientato in una sezione del Partito Comunista Italiano situata in una periferia romana, quando la sezione e il partito stesso sono travolti dalla notizia dell’invasione sovietica di Budapest del 1956.

In realtà Giovanni-Nanni, sta pensando anche ad altri due film, il primo tratto dal romanzo “Il nuotatore” di John Cheever (Moretti è sempre stato un amante del nuoto, sublimato, come metafora della vita, in Palombella rossa), e un altro film, non meglio definito, che contenga un nutrito repertorio di canzoni italiane. In questo travaglio di idee, interviene anche un fatto sconvolgente, la decisione della moglie Paola (Margherita Buy), produttrice dei suoi film, di porre termine al loro matrimonio. La crisi che Giovanni si trova ad attraversare, professionale oltre che umana, è causata da un mondo che non capisce più, non capisce più le persone, forse non capisce più i fatti, ma soprattutto non capisce più le “parole”. L’irresistibile sequenza dell’incontro con i rappresentanti di Netflix, esprime appieno il disagio del regista (Giovanni-Nanni), verso un mondo che ha operato una sostituzione linguistica attraverso un adattamento e una banalizzazione della lingua, schiava delle spietate logiche di mercato.

Il cinema di Moretti è un cinema di parola (forse per questo tanto amato dai francesi): “Le parole sono importanti!” urlerà ad una giornalista Michele Apicella in Palombella rossa. E anche in questo film la “memoria della sinistra”, gioca un ruolo sostanzioso, ma a differenza della trovata miserrima del film di Walter Veltroni, tutto è evocato con la feroce autoironia della ineguagliabile “allure” della narrazione cinematografica morettiana. Ed è proprio con questa autoironia del linguaggio che Moretti prova ad ipotizzare una “storia altra” della sinistra proprio a partire dalle parole, sconpaginando quelle del titolo dell’Unità proprio durante i fatti del 1956. Gran bel film, chissà però che non sia arrivata l’ora di rompere la lunga teoria di film automeditativi e si possa tornare a raccontare “con” il cinema, visto che a raccontare “il” cinema si sono ormai cimentati un po’ tutti…