A R T E – M O S T R E


Articolo di Mario Grella

Scrivere qualcosa di originale sulla mostra che la Fondation Louis Vuitton di Parigi dedica a Gehrard Richter fino al prossimo 2 marzo, è veramente difficile. Si tratta forse della più generosa retrospettiva che l’artista abbia mai avuto; nulla di paragonabile alla pur nutritissima mostra del Centre Pompidou del 2021. In quella occasione pensavo di essermi già saziato del grande artista tedesco, ma non era così, poiché come si suol dire, l’appetito vien mangiando. Ammetto di essere un grande estimatore del primo Richter, quello degli anni Settanta per capirci, quello della reinterpretazione (ammesso che di reinterpretazione si tratti) de l’Annonciaton de Titien, che trae ispirazione dal suo soggiorno veneziano, in occasione della partecipazione alla Biennale del 1972, dove l’artista espose i celeberrimi quarantotto ritratti nel padiglione tedesco, ma già anche qui c’è da restare incantati. Richter prese spunto dalle immagini di letterati, filosofi, scienziati, reperiti su libri ed enciclopedie scegliendo per tutti lo stesso taglio neutro, ma in realtà c’era un voluto richiamo allo spazio neoclassico del padiglione tedesco edificato alla biennale nel 1938. Questo Pantheon però, a differenza di quello nazista è assolutamente inclusivo, proponendo personalità dalle idee molto diverse nell’arte come nella vita.

In un famoso saggio intitolato “Arte e fotografia”, Aaron Scharf raccontava della quasi incredibile avventura della nascita della fotografia e del passaggio in cui, da una fotografia che copiava la pittura, si passò velocemente al momento in cui fu la pittura che copiò la fotografia. Come non ricordare i quattro zoccoli di un cavallo al galoppo alzati contemporaneamente e fotografati nella celebre sequenza di Edward Muybridge che folgorò Théodore Géricault nel suo Derby di Epsom? Tutto ciò per sottolineare che se c’è un artista che ha cercato profondamente il rapporto con la fotografia, questo è proprio Richter tanto da ricercare con pervicacia una pittura che fosse innervata di fotografia, fino all’imitazione cercata, voluta, persino desiderata, ma sempre ben consapevole che la pittura non è la fotografia, un’operazione intellettuale prima che artistica. Non seguendo strettamente l’ordine cronologico, siamo nel 1965, come non soffermarsi su un’opera storica, tra le più note di  Richter, come Onkel Rudi, lo zio dell’artista in divisa nazista, dove il senso del passato è dato da una particolarità tecnica dell’opera, ovvero una pennellata passata sulla superficie ancora umida del quadro. Il risultato è stupefacente e riporta alla memoria col necessario distacco, ma con crudo disincanto, quell’imbarazzante zio in divisa nazista.

Con la stessa tecnica è realizzato Tante Marianne, ricordi della famiglia lasciata nella DDR dopo la fuga verso la Germania occidentale. Piluccando tra i ritratti e in particolare quelli di famiglia, mirabile è Betty, figlia di Richter del 1988, un ritratto di nuca mentre la figlia si gira, quadro dalla delicatezza e dalla raffinatezza di un ritratto fiammingo. Sempre degli anni Ottanta, il 1982 per la precisione, Kerze (candela) e Schädel (cranio) sono due soggetti intimi e che vogliono far riflettere sull’eterno tema del tempo che consuma il tutto. Opere quasi iperrealiste, ma pregne di una carica simbolica e poetica di difficile definizione, però di sicuro fascino. Molto significativo anche l’omaggio a due grandi artisti contemporanei ovvero Gilbert & George (a cui la stessa Fondation dedicò una significativa mostra alcuni anni fa): le fotografie a esposizione multipla dei due artisti richiamano le prime immagini da loro scattate che li ritraevano in interni inglesi.

E veniamo al capitolo natura, un tema ineludibile per tutta la pittura, sin dalla notte dei tempi. Richter non dipinge la natura en-plein-air, ma da fotografie scattate durante viaggi, soggiorni, spostamenti. Solo dalla fotografia Richter riesce ad elaborare, grazie ad un salutare distacco, un paesaggio naturale che all’apparenza sembra del tutto anonimo, un paesaggio che potremmo definire “senza qualità” parafrasando Musil: una strada che attraversa un bosco, una foschia autunnale, qualche cespuglio. Prima che la pittura si asciugasse, Richter strusciava un pennello a secco sulla tela, creando quell’effetto sfuocamento così caratteristico e che definisce un po’ tutta la pittura fotografica di paesaggio di Richter. Basta guardare Apelbäum i famosi meli del 1987 prestati alla Vuitton da un collezionista privato. Grande osservatore della natura in ogni suo risvolto non spettacolare, Gerhard Richter, dipinge nel 1969 la Marina leggermente nuvolosa, un paesaggio atmosferico conturbante, evanescente, ma soprattutto commovente per il suo afflato mimetico.

A metà strada tra la pittura realista e l’astrattismo è collocabile la serie Birkenau del 2014, grandi tele di oltre quattro metri quadrati ciascuna dove Richter affronta la pittura dell’indicibile. Dopo aver cercato di dipingere la Birkenau reale, Richter si dichiara vinto e sulla base del materiale pittorico già deposto sulla tela, cerca di trasformare le immagini in astrazioni. La rivelazione è tutta in questo passaggio, quando l’astrazione riesce a rendere l’orrore del luogo, un’operazione niente affatto scontata; un po’ l’operazione che, in un altro contesto, aveva già fatto con Wald (3) del 1990. Una foresta molto tedesca, profonda e cupa, resa magnificamente dalla sovrapposizione degli strati pittorici. Con qualche rischio, credo di poter dire che ciò che attrae meno il pubblico strabordante della esposizione parigina, è l’astrattismo “puro” come i quattro pannelli di vetro del 1967 di Glassscheiben o gli esperimenti semi-concettuali di Spiegel (specchio), dove l’artista si è anche reso soggetto fotografico. Dice Richter: “Quello che mi seduce negli specchi è che essi non reclamano alcuna manipolazione, gli oggetti e le figure risultano uniti senza aggiunte…”. Riflessioni che attengono al concettualismo puro e che, a mio modo di vedere non si addicono alla personalità dell’artista tedesco, così da sempre calato nella materia di cui da secoli si nutre la sua pittura e la sua fotografia che, sembra un paradosso dirlo, è ancella della sua pittura. Mostra superlativa per numero di opere esposte e qualità delle stesse.

Photo © Gehrard Richter, courtesy of Fondation Louis Vuitton, Paris

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