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Abeat Records

Antonio Artese Trio – Two Worlds (Abeat Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Percorrere in lungo e in largo le tracce di questo Two Worlds di Antonio Artese Trio è un esercizio ritemprante. Come tirare un respiro profondo dopo un’immersione in apnea. Un po’ perché l’autore non raccoglie l’angustia di molto jazz contemporaneo, di quello più provocatoriamente dissonante, per capirci. In secondo luogo perché ci troviamo di fronte ad un’opera molto ben armonizzata in cui si percepisce senza sforzo la forte impronta classica che condiziona, con i suoi aromi altresì consonanti, la tessitura ariosa e nitida di questa musica. La dolcezza eufonica, l’espressivo scorrere dei suoni e il nucleo leggero delle composizioni fanno sì che si realizzi una vera e propria jazz-therapy, quasi un’azione lenitiva sul nostro stato psico-fisico o, se preferite, una moderata ed effervescente stimolazione del tono dell’umore. Ma dobbiamo ben intenderci su quest’ultimo punto. Two Worlds è un disco jazz, non un gingillo new-age e come tale riconosce una serie di crediti piuttosto evidenti, direi suddivisi a metà tra certo pianismo duttile e velatamente romantico alla Bill Evans e un’impronta non sfacciata ma piuttosto percepibile di estetica nordico-scandinava. I due mondi di cui parla questo album, qualunque essi siano e pur potendo essere interpretati in ottiche diverse, non sono in opposizione uno all’altro, bensì in reciproca, fluida continuità. Così se da una parte si avverte l’educazione classica – tutti i componenti del gruppo hanno in comune il diploma al Conservatorio di S.Cecilia in Roma – dall’altro lato colpisce l’impostazione jazzistica che corroborata da soggiorni e master negli U.S.A da parte di ognuno dei tre musicisti, rappresenta la vera anima narrante di questo lavoro. Le succitate influenze, così apparentemente differenti, s’intercalano tra loro come se le reciproche prospettive diventassero interpretabili da un unico punto di vista. Lo stesso intendimento potremmo riscontrarlo nel penultimo brano in scaletta di questo disco, quello che vede l’italianissima tradizione del melodramma – nello specifico un estratto dalla Madama Butterfly – a confronto con la scioltezza di un interplay tipico di un buon gruppo jazz, cioè portatore di una cultura musicale di radici e sviluppi assai diversi. Nessuna opposizione, comunque, ma una sintesi direi quasi hegeliana tra mondi apparentemente antitetici eppure così ben compenetrati uno nell’altro.

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Federica Lorusso – Outside Introspections (Abeat Records / ZenneZ Records, 2022)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Non so in che misura la lontananza dalla sua terra d’origine, la Puglia, abbia condizionato Federica Lorusso nella preparazione di questo suo esordio discografico. Del resto il titolo dell’album con cui si presenta presso Abeat Records e ZenneZ Records, Outside Introspections, suggerirebbe una sorta di tensione interiore che la pianista – e brava cantante, come vedremo – ha cercato di estrovertire provando a mettere in comunicazione il suo passato vissuto in Italia con il presente attuale che la vede residente in terra olandese. Abitando ad Amsterdam, dopo aver studiato musica a L’Aia nel Royal Conservatory of the Hague, Lorusso deve aver provato almeno in parte quel sentimento nostalgico che afferra chi si trovi stabilmente lontano dai territori d’origine, qualunque ne sia il motivo del distacco. Ma il modo più corretto per legare passato e presente, almeno per un artista, è quello di trasmutare alchemicamente questi due opposti – per crucem ad rosam – e ottenere attraverso la capacità creativa una sintesi soddisfacente, un risultato che componga memoria e attualità in un unico accordo armonico. Ed è appunto di accordi e di armonie checi troviamo a scrivere in questo contesto. Lorusso è un’ottima pianista dal notevole tocco e ciò lo si avverte fin dalle prime battute, questo per mettere in chiaro da subito la caratura di questo esordio. Ma quello che mi ha in parte piacevolmente sorpreso è il canto dell’Autrice, una vocalizzazione che compare in qualche episodio dell’album e che dimostra soprattutto un’intonazione perfetta e una timbrica trasparente, molto gradevole e sicura nell’estensione vocale. Leggo infatti nella sua home page che gli studi di questa musicista vertevano originariamente proprio sul canto e che solo in un secondo tempo è nato l’interesse per il piano e per il jazz, sostenuto, in questo, dagli insegnamenti di Vito di Modugno. Non mi stupirei se in una prossima prova si potesse ascoltarla, oltre che come brillante pianista, anche come una vera e propria cantante, non più solamente occasionale come in questo contesto. Il pianismo dell’artista è piuttosto personalizzato, non riesco infatti a riscontrarvi dei chiari riferimenti diretti ma si percepisce come il suo modo di suonare porti i segni d’una ben avviata educazione jazzistica. La musica di questo album appare a larghi tratti come saldamente legata alla tradizione del jazz più classico ma in altri episodi non rinuncia ad avventurarsi in territori di confine, rivelando stati d’animo che tradiscono una certa inquietudine ed la smaniosa curiosità intellettuale degli stessi esecutori. Chi si aspettasse un’attenzione focalizzata alla melodia tipicamente mediterranea potrebbe rimanere un po’ deluso perché l’impressione che lascia questa incisione è quella di appartenere per lo più ad un’identità non necessariamente solo europea – anche se a tratti affiora giustamente qualche riflesso più italico, soprattutto nei vocalismi – sottolineando così il profilo cosmopolita di questo lavoro. I musicisti che le si affiancano formano un quartetto ben coeso e sono Claudio Jr. De Rosa al sax tenore e al clarinetto, David Macchione al contrabbasso ed Egidio Gentile alla batteria.

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Aura Nebiolo – A Kind of Folk (Abeat Records, 2022)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

In una piacevole tavolata tra amici mi capitò di sostenere – complice il vino che induceva giocoforza ai dialogoi – che piccoli gruppi cameristici, sia nell’ambito classico che nel jazz, costituivano una teorica modalità perfetta di ascolto. Pochi strumenti, meno distrazioni, più capacità di seguire lo svolgimento della musica. Al che uno tra i commensali mi fece riflettere sul misterioso, abbacinante effetto di un’orchestra. Magicamente, strumenti di natura diversa che svolgono parti differenti come trombe e tromboni, archi e flauti, s’intrecciano in una sorta di danza erotica, avvicinandosi e allontanandosi in un altalena continua tra eccitazione e malinconia. “La differenza” – sosteneva l’amico – “sta tutta nel colore”. A distanza di tempo devo convenire che un gruppo orchestrale, considerato nel suo insieme, si trova realmente su un altro pianeta. Se poi le partiture sono scritte con cognizione di causa e in una modalità cosi pura e lineare come nel caso di questo A Kind of Folk, seconda uscita discografica della compositrice e cantante astigiana Aura Nebiolo, allora può scattare veramente una sorta di seduzione verso tutto ciò che riguarda un’orchestra e il potenziale della sua tavolozza di sfumature. Il titolo dell’album, come racconta la stessa autrice, si rifà ad un brano del trombettista Kenny Wheeler, appunto Kind of Folk, che si trova in Still Waters uscito nel 2005. Paradossalmente questa traccia è eseguita in duo – oltre alla tromba di Wheeler c’è anche il piano di Brian Dickinson – ma tra gli spazi sonori e le suggestioni armoniche create dai due musicisti, la Nebiolo potrebbe averci letto degli spunti, delle idee nuove dalla cui elaborazione è nato un disco come questo pubblicato per Abeat. L’artista piemontese, diciamolo subito, è una più che piacevole sorpresa. Da quello che avevo compreso nel suo disco precedente, una raccolta di standard dedicati a George & Ira Gershwin, pubblicato solo l’anno scorso, mi era sembrata una brava cantante jazz e poco di più, alle prese tra l’altro con una formazione ridottissima (vibrafono e contrabbasso, rispettivamente degli ottimi Maurizio Vespa ed Enrico Ciampini). Francamente, non avrei potuto prevedere questa evoluzione che ora la vede nella triplice veste di cantante, autrice ed arrangiatrice e in grado di condurre elegantemente gli undici elementi della sua orchestra – li citerò tutti, come conviene, in coda alla recensione –  inserendosi tra loro con la sola voce.

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Tommaso Sgammini | Filippo Macchiarelli – Stànzia (Abeat Records, 2021)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Dato che la legge dell’ambivalenza domina il Mondo, anche in una disgraziata deriva come l’epidemia da Covid ci si può trovare un elemento – almeno uno – vantaggioso. Quindi, si prendano due musicisti bravi, chiudendoli necessariamente in una stanza coi loro “giochi” – in questo caso un pianoforte e un contrabbasso – per tenerli lontano quanto possibile dai virus e si potrà ottenere qualcosa di bello e inaspettato, ad esempio un lavoro come questo Stànzia, uscito qualche settimana fa per la Abeat. I due musicisti in questione sono giovani e con adeguati studi sia classici che jazz alle spalle. Tommaso Sgammini al piano è alla sua prima prova da titolare mentre Filippo Macchiarelli, il contrabbassista, ha già nel carniere due precedenti album, un lavoro uscito nel 2019, About songs registrato in solitudine con voce e basso elettrico e un altro disco più recente in quintetto, il maturo Il vento è fuori, di cui ricordo volentieri oltre alla musica una suggestiva foto di copertina. C’è da rimarcare inoltre la presenza aggiuntiva in tre brani di Camilla Battaglia, cantante dall’escursione vocale straordinaria – ma quante ottave copre? – e figlia di Stefano Battaglia e Tiziana Ghiglioni, due nomi già di per sé luccicosi nel panorama del jazz italiano. La Battaglia ha esordito giovanissima con il Renato Sellani Trio nel 2010 e ha proseguito il suo percorso ufficiale con l’etichetta Dodicilune in due lavori usciti nel 2016 e nel 2018, rispettivamente Tomorrow-2 more Rows of Tomorrows e Emit:Rotator Tenet. I tre attori di questo Stànzia non sono quindi certo alle prime armi e rappresentano parte di quella “meglio gioventù” del jazz italiano che di mese in mese, qui su Off Topic, riusciamo a recensire con sempre grande piacere. I due musicisti percorrono questa uscita discografica tra diversi brani originali e due standard, più il rifacimento di una composizione appartenente al soundtrack del film ll Maratoneta del 1976. Al di là dell’orecchio necessariamente ben temperato che questa musica richiede all’ascolto, con la sua struttura ricca di sorprese, ricordi classici e di memorie jazz-mainstream, occorre che in questa circostanza ci si lasci andare emotivamente a seguire l’immaginazione di questi musicisti, pensandoli in una stanza confortevole, che si scambino impressioni, sensazioni, risoluzioni melodiche, dando fondo al loro bagaglio ricco di sentimenti ed espressività. Non bisogna aver timore della formazione scarna, qui non si ascoltano esuberanze strumentali maniacali – del tipo “senti come son bravo” – ma nemmeno momenti di malinconica accidia. Se c’è una qualità su cui mi sentirei di scommettere, questa è la sincerità d’intenti, a metà tra uno sforzo introspettivo e la pura, semplice gioia “fanciullesca” di suonare, senza particolari rimuginazioni intellettualistiche.

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Luca Falomi, Alessandro Turchet, Max Trabucco – Naviganti e Sognatori (Abeat Records, 2021)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Naviganti e Sognatori lo siamo un po’ tutti. Potremmo estrapolare il titolo di questo suggestivo lavoro di Falomi, Turchet & Trabucco e appropriarcene, rivendicandone la  co-paternità. Non si può navigare, metaforicamente parlando, senza avere sogni da portare con sé in valigia. Né succede mai di sognare veramente senza desiderare per almeno un giorno di viaggiare, di partire, di lasciare il nostro vecchio mondo alle spalle. Non dimentichiamo poi che l’Italia è una penisola allungata sul mare e che dalle sue coste sono partiti migliaia di naviganti in cerca di avventura, di un lavoro, di ricchezze e di potere. O semplicemente coltivando il desiderio di vedere posti nuovi, spesso solo sognati, appunto. Si racconta, in questo disco, di tre città come Genova, Venezia e Trieste – ma c’è anche un importante riferimento a Napoli – che non hanno mai vissuto di aristocratici isolazionismi ma che al contrario si sono offerte al mare, cercando in questo una potente ragione di vita e uno stimolo per il futuro. Mare come prezioso alleato, quindi, ma anche come doloroso simbolo di lontananze e i brani che compongono Naviganti e Sognatori raccontano ogni cosa, desideri e addii, amori e dispiaceri. Tutto questo non solo attraverso nuove composizioni ma riproponendo anche canzoni popolari antiche che sul mare hanno a lungo viaggiato prima di diventare patrimonio di tutti. Questo disco è però tutt’altro che opera crepuscolare, sa emergere tra le dolcezze melodiche dei brani dimostrando una primaverile solarità fatta di profumi e chiarità. Luca Falomi, trentasettenne genovese, è giunto al suo terzo disco da titolare senza  tener conto della sua collaborazione con il gruppo Motus Laevus e della relativa uscita discografica – Y – del 2020. Ci troviamo dinnanzi a un chitarrista che ha un’ampia visione delle possibilità del suo strumento, ha studiato musica classica, jazz ed etnica e inoltre si è spesso impegnato come arrangiatore. Possiede un profondo senso melodico accoppiato a solide certezze armoniche e traina il gruppo con sicurezza attraverso questo allegorico viaggio per il Mediterraneo. 

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Claudio Fasoli 4et – Next (Abeat Records, 2021)

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Recensione di Aldo Pedron

Claudio Fasoli è sassofonista, compositore, docente che collabora con riviste musicali scrivendo testi teorici, articoli e recensioni. Nato a Venezia ma milanese d’adozione è in attività dal 1970. La sua popolarità gli giunge quando inizia a far parte del quintetto Perigeo, uno dei gruppi più celebri in assoluto di sperimentazione jazz negli anni 70, assieme a Franco D’Andrea e Giovanni Tommaso e realizzano molti dischi superbi ed interessanti per la RCA che tuttora sono assai ricercati dai collezionisti. Una band che si fa notare ed apprezzare oltretutto con un numero infinito di performance dal vivo. La band si scioglie nel 1978. Claudio Fasoli insegna alla Civica scuola di musica “Claudio Abbado” di Milano.

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Luca Meneghello & Michele Fazio – Crossover (Abeat Records, 2021)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Musicalmente parlando, Luca Meneghello e Michele Fazio sembrano fatti l’uno per l’altro. Non solo perché sono accomunati da una lunga gavetta, soprattutto a fianco di grossi nomi della musica leggera – stiamo parlando di Mina, Patty Pravo, Enzo Jannacci, Antonella Ruggiero, Fabio Concato ecc… insomma mica nomi qualunque – ma anche perché l’allineamento planetario che li ha portati a collaborare insieme ha fatto sì che i due manifestassero una reciproca complementarietà, dato non necessariamente così scontato nei rapporti professionali tra musicisti. Lavorando a contatto con cantanti famosi che sono, di regola, abituati a produzioni non risparmiose e a esigenze diverse, Meneghello e Fazio devono aver appreso l’arte della sintesi, la capacità di sbrigarsela con poche e convincenti note nei loro interventi, quelle che servono a sostenere una canzone normalmente di tre-quattro minuti. Niente mi toglie dalla testa però che, vuoi per formazione, vuoi per naturale disposizione, in entrambi alloggi una decisa caratura jazzistica, con un modo di pensare, di sentire la musica, di scorrerla sotto le dita che ha lo swing tra le proprie sillabe e nell’articolazione del loro linguaggio. Con gli opportuni distinguo, però. Se Meneghello tradisce nei suoi fraseggi l’aver digerito anche la lezione di gran parte dei guitar hero della storia della fusion e del rock – e non solo gli insegnamenti del grande Joe Diorio che leggo tra i suoi maestri – Fazio, dal canto suo, con un curriculum che l’ha visto autore di importanti colonne sonore, mantiene un’impronta molto melodica, quasi romantica, ed è la componente più zuccherina della salsa agro-dolce che assaggiamo in questo disco, Crossover, appena sfornato dalla cucina della Abeat.

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Igor Caiazza – Blu (Abeat Records, 2021)

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Recensione di Aldo Pedron

La Abeat Records di Mario Caccia di Solbiate Olona (Va) è una delle più attente ed importanti etichette discografiche nell’ambito jazz, sempre pronta a scoprire nuovi talenti e confermare artisti di valore già affermati. Una politica quella della Abeat Records dedita a sostenere e promuovere giovani talora spesso esordienti e talentuosi musicisti soprattutto italiani. Rispetto ad altre etichette Abeat non segue una linea editoriale omogenea o ristretta ad una unica tipologia di genere o di stile ma tende a promuovere progetti con una propria e forte identità. Un catalogo notevole che vi invito a sfogliare e visitare.

Igor Caiazza è un brillante compositore, arrangiatore, percussionista classico e vibrafonista jazz. Ha un passato giovanile di batterista, suonando rock, pop e hip-hop, ma poi la musica classica lo ha stregato e catturato. Così, approfondendo lo studio del vibrafono e della marimba, oltre all’adorato Bach ha scoperto Astor Piazzolla, le cui composizioni, non a caso, erano un mix tra la musica classica e la musica argentina. Piazzolla è stato, quindi, il ponte tra la classica e il jazz ma di quest’ultimo non si è più liberato!

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Carmine Ioanna – Ioanna Music Company (Abeat Records, 2021)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Strumento caratterizzato da forti contrasti chiaroscurali, la fisarmonica – o accordion – è uscita da molti anni allo scoperto, dimostrandosi decisamente più duttile rispetto a quell’aura un po’ campagnola a cui era stata tradizionalmente legata fino alla seconda metà dei ’50, almeno in Italia. Dobbiamo innanzitutto questa rivalutazione nostrana alla figura mai sufficientemente riconsiderata di Gorni Kramer, virtuoso dello strumento e direttore d’orchestra, che già negli anni ’30, nonostante l’ostracismo di regime, se ne andava in giro per il Paese a suonare il vietatissimo jazz. Le numerose trasmissioni televisive a cui partecipò tra i ’50 e i ’60 fecero conoscere lui e la sua agile fisarmonica al grosso pubblico. Da lì in poi, lasciando da parte le influenze straniere di Piazzolla, Galliano, Saluzzi, ecc…anche in Italia si è assistito ad un confortante aumento di fisarmonicisti e penso, senza voler far torto a nessuno, a coloro che hanno cercato, tra gli altri, di allargare al jazz e ad altro ancora il suono del loro mantice. Così mi vengono in mente i nomi di Gianni Coscia, del funambolico Antonello Salis, di Giuliana Soscia, di Biondini, Zanchini ed altri ancora. Adesso è la volta di Carmine Ioanna, musicista irpino non certo alle prime armi – questo Ioanna Music Company è il suo terzo lavoro da solista – che vanta nel suo curriculum, oltre a innumerevoli concerti in ogni parte del mondo, diverse collaborazioni con Luca Aquino e Francesco Bearzatti (che ritroviamo peraltro anche in questo contesto).

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