R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Percorrere in lungo e in largo le tracce di questo Two Worlds di Antonio Artese Trio è un esercizio ritemprante. Come tirare un respiro profondo dopo un’immersione in apnea. Un po’ perché l’autore non raccoglie l’angustia di molto jazz contemporaneo, di quello più provocatoriamente dissonante, per capirci. In secondo luogo perché ci troviamo di fronte ad un’opera molto ben armonizzata in cui si percepisce senza sforzo la forte impronta classica che condiziona, con i suoi aromi altresì consonanti, la tessitura ariosa e nitida di questa musica. La dolcezza eufonica, l’espressivo scorrere dei suoni e il nucleo leggero delle composizioni fanno sì che si realizzi una vera e propria jazz-therapy, quasi un’azione lenitiva sul nostro stato psico-fisico o, se preferite, una moderata ed effervescente stimolazione del tono dell’umore. Ma dobbiamo ben intenderci su quest’ultimo punto. Two Worlds è un disco jazz, non un gingillo new-age e come tale riconosce una serie di crediti piuttosto evidenti, direi suddivisi a metà tra certo pianismo duttile e velatamente romantico alla Bill Evans e un’impronta non sfacciata ma piuttosto percepibile di estetica nordico-scandinava. I due mondi di cui parla questo album, qualunque essi siano e pur potendo essere interpretati in ottiche diverse, non sono in opposizione uno all’altro, bensì in reciproca, fluida continuità. Così se da una parte si avverte l’educazione classica – tutti i componenti del gruppo hanno in comune il diploma al Conservatorio di S.Cecilia in Roma – dall’altro lato colpisce l’impostazione jazzistica che corroborata da soggiorni e master negli U.S.A da parte di ognuno dei tre musicisti, rappresenta la vera anima narrante di questo lavoro. Le succitate influenze, così apparentemente differenti, s’intercalano tra loro come se le reciproche prospettive diventassero interpretabili da un unico punto di vista. Lo stesso intendimento potremmo riscontrarlo nel penultimo brano in scaletta di questo disco, quello che vede l’italianissima tradizione del melodramma – nello specifico un estratto dalla Madama Butterfly – a confronto con la scioltezza di un interplay tipico di un buon gruppo jazz, cioè portatore di una cultura musicale di radici e sviluppi assai diversi. Nessuna opposizione, comunque, ma una sintesi direi quasi hegeliana tra mondi apparentemente antitetici eppure così ben compenetrati uno nell’altro.

Di Antonio Artese, pianista molisano che oltre agli studi musicali vanta anche una laurea in filosofia, siamo a conoscenza di due lavori precedenti, l’esordio nel 1996 con Italian Sketches Piano Improvvisation – credo pubblicato solo negli USA – e l’ottimo Voyage (2019) editato in quartetto. Numerose le sue collaborazioni sia con artisti jazz – tra cui spiccano i nomi di Maurizio Giammarco, Yuri Golubev, Gabriele Mirabassi, Gabriele Evangelista e Barbara Casini – che con interpreti del mondo della musica classica. Al contrabbasso troviamo Stefano Battaglia – da non confondere con l’omonimo pianista – anch’egli con un ricco curriculum d’incisioni e collaborazioni. Alla batteria, infine, c’è Alessandro Marzi, presente in un centinaio d’incisioni e con partecipazioni eterogenee che spaziano dal jazz al pop.
Il primo brano dell’album, di cui eredita il titolo Two Worlds, si presenta in modo sintomatico come espressione riassuntiva di ciò che abbiamo prima accennato. Il tema pianistico inizia con un accordo di Sol minore arricchito da una settima maggiore che ne delinea l’aspetto instabile e tensivo. Se si prova a cantare la melodia – fin dove possibile – si realizza una curiosa sovrapposizione tra un’aria popolare con accenti di malinconica latinità e l’accompagnamento, devoto alle misure del jazz, con una ritmica perfettamente intercalata tra il contrabbasso, la batteria e lo sviluppo pianistico. Artese non si dilunga in tortuose improvvisazioni ma trova una bella elaborazione tematica che si apre tra i due assoli, quello di Marzi prima e l’altro di Battaglia poi. Julita è il brano che, soprattutto nell’incipit, meglio riassume le inclinazioni nordiche di questa musica, tracciando una ritmica basilare – soprattutto della batteria – su cui il piano, molto cantabile, costruisce una progressione iniziale quasi pop a cui fa seguito un’improvvisazione con note intervallate spesso da ampi silenzi che creano un alone di profonda tridimensionalità. Un brano, questo, che nel suo sentire mi ha ricordato certe elaborazioni melodiche di Renato Sellani. Da rimarcare l’attenta, estrema pulizia sonora di Artese a cui piace evidentemente lavorare molto per sottrazione. Poche note ben pesate piuttosto che una folla di suoni dispersivi e tambureggianti. Prelude si crea attorno ad un ¾ dentro al quale Artese imposta una linea attentamente fraseggiata e sostenuta da un grande contributo ritmico di Marzi e Battaglia. Il brano rimanda, vuoi per la cadenza ritmica ma soprattutto per l’improvvisazione che s’affaccia su un bebop d’antan, al classico Waltz for Dabby di Bill Evans. Hymn lo interpreto invece come il brano tecnicamente più personale di Artese e forse il più affascinante e originale dell’album. Un tema che si sviluppa inserendo dissonanze raffinate in una trasfusione di sonorità insolite, molto moderne e quasi antitetiche – di nuovo la sintesi dei due mondi – rispetto al contesto fin qui sviluppato. Una certa marzialità, sostenuta dalle rullate del batterista, percorre tutto il brano e vi trasfonde un aspetto più rigoroso ed una raffinatezza compositiva che segmenta l’omogeneo assetto melodico fin qui ascoltato. Lila, introdotto da un paio di cupi accordi che squarciano il presente, sembra una dedica personale, un ricordo che riaffiora dapprima velatamente poi in maniera sempre più netta dalle brume della memoria. Se ne avverte quasi il tenore affettivo, con l’archetto a sfregare sulle corde del contrabbasso come si trattasse di una lamentazione. L’inserto lineare della batteria sostiene l’improvvisazione pianistica che suona come sempre con notevole spessore emotivo. Molto belli gli ulteriori inserti di Marzi insieme al suo assolo, soprattutto mentre il piano corre con qualche rapida scala sulla tastiera. Suggestiva la conclusione nella dissolvenza del ricordo, persa nel magmatico, definitivo accordo grave di pianoforte. Non so cosa o chi sia il destinatario di questa dedica ma le note di piano sembrano a tratti simulare dei passi, una corsa a perdersi nei lunghi corridoi della rimembranza.

Icarus veste l’abbigliamento più classicamente jazz che abbiamo potuto ascoltare fino ad ora. L’incipit appoggiato ad un riff di contrabbasso dal sabor latino fiorisce tra una suggestione alla Rubalcaba ed una alla Hancock, innescando una moderata euforia di colori. Poi, a questo inizio vagamente esuberante, subentra una pausa riflessiva con uno squisito, misurato, centellinato assolo pianistico che gioca sempre con le pause, i silenzi, gli spazi tra le note, insomma nella modalità che riconosciamo ormai come propria di Artese. L’assolo finisce, l’intima meditazione si conclude riprendendo e sfumandosi nel tema iniziale. Niente si avvale d’un accompagnamento ritmico che la batteria interpreta con un preciso drive di misure regolari mentre è il contrabbasso che si scava uno spazio d’assolo all’interno di un tema che ricalca – omaggio velato o inconsapevole suggestione? – la progressione armonica del soundtrack di Ultimo Tango a Parigi. La melodia suonata dalla mano destra si trova spesso ad un soffio da Satie. La musica che ne risulta non ha una precisa dimora e questo mi pare poter essere forse il brano meno incisivo dell’album. Poi arriva l’inaspettato, cioè una rielaborazione di Un bel dì dall’opera pucciniana Madama Butterfly. Personalmente non sono un appassionato di questo tipo di riarrangiamenti, anche se devo dire che stimo molto il pianista Riccardo Arrighini che dedicò proprio a Puccini il suo Puccini Jazz del 2008. Ma l’impostazione classica di Artese dà qui i suoi frutti, rielaborando in modo personale e rispettoso, approfittando del suo ben calibrato tocco, l’arcinota commovente melodia cantata dal personaggio di Cio-Cio-San. L’inizio fa sì che l’usuale tema della sintesi tra gli opposti due mondi trovi a questo punto la sua massima, evidente dimostrazione. La melodia viene riarmonizzata con l’invenzione dell’archetto che stride sulle corde del contrabbasso, quasi dando voce ai pensieri della protagonista dell’Opera. Esaurito l’inizio, diciamo così più sperimentale, Artese riprende il tema melodico sottolineandone la bellezza intrinseca e legando tra loro i sintagmi espressivi con il bagaglio di invenzioni squisitamente jazz che il pianista apparecchia con cura. Con Voyage, il percorso d’ascolto termina confluendo in una tipica costruzione per piano-trio dove le soluzioni armoniche e quelle ritmiche convergono in un brano di assoluto respiro e piacevolezza. L’assolo di Artese ricalca le orme di Evans in un bell’intreccio tra la diteggiatura pianistica e il sostegno offerto da contrabbasso e batteria, questi ultimi mai sopra le righe. Nelle battute finali l’incremento di volume di Marzi sembra scuotere l’ossatura del brano ma tutto rientra nella moderazione delle ultime sequenze tematiche.
Se il piacere di un ascolto che sceglie l’assonanza possiede ancora un senso comunicativo così come mi auguro, allora questo Two Worlds è il compagno ideale per sfuggire a quei codici interpretativi della realtà che vi leggono spesso messaggi confusivi e stridenti. Tradurre il postmoderno o quello che ancora ne resta attraverso il seppellimento delle relazioni armoniose tra le cose – la risonanza come ne parlava il saggista J.J. Campbell – in nome di un liberi tutto e tutti espressivo, credo abbia bisogno di un ridimensionamento, o comunque di una prospettiva di lettura a più lungo raggio. Questo Two Worlds non ha ambizioni di proselitismo, non teme di rimanere afasico nella sua lettura emozionale e potrebbe entrare nelle nostre vite come tutta la buona arte che non sia solo urgenza dichiarativa ma soprattutto, ancora e sempre, tecnica, scienza e cuore.
Tracklist:
01. Two Worlds (6:18)
02. Julita (3:30)
03. Prelude (4:30)
04. Hymn (4:10)
05. Lila (5:55)
06. Icarus (6:18)
07. Niente (3:00)
08. Un Bel Dì (4:59)
09. Voyage (5:40)
Photo © Samantha Stout, Biancalisa Nannini
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