Articolo di Luca Franceschini.
Questa volta devo fare ammenda. Dopo anni passati ad insultare il pubblico casuale, quelli che vanno ai concerti conoscendo al massimo una decina di canzoni del gruppo di turno, dopo essermi detto scandalizzato per il livello del pubblico milanese agli ultimi concerti di Pearl Jam e Springsteen, adesso è toccato a me, recarmi ad uno show senza essere molto preparato. Ma è in qualche modo giusto così, perché ho capito che i concerti non sono esami universitari e che ci si va semplicemente per godere di buona musica, di qualche band che sappia intrattenere e suonare come Dio comanda, oltre a sciorinare le immancabili hit di turno.
Già, perché io i Counting Crows li ho sempre snobbati. Ricordo perfettamente l’uscita di “August and Everything After”, il loro primo, immenso disco, esattamente vent’anni fa. Ricordo recensioni entusiastiche, ricordo passaggi in radio ma ricordo anche il disgusto di me, giovane metallaro in erba, che storceva il naso e fingeva conati di vomito, per quella che ai suoi occhi (o alle sue orecchie) era semplicemente musica “commerciale”.
Mi imbattei in loro anni più tardi, durante la visione di “Shrek 2”: “Accidentally in Love” era senza dubbio un bel pezzo ma non fece assolutamente nulla per smentire il mio pregiudizio secondo cui quella californiana fosse una band facile e banalotta.
Mi sono ricreduto giusto un anno fa, ascoltando “Echoes of the Outlaw Roadshow”, un live zeppo di cover da cui traspariva una raffinatezza e uno spessore che mai avrei pensato che la band di Adam Duritz possedesse.
Sicchè, piano piano, quasi in punta di piedi, mi ci sono avvicinato ed è stata davvero la scoperta di un mondo. Dapprima l’ultimo album “Somewhere Under Wonderland”, che non tutti hanno recensito positivamente ma che a me, neofita assoluto, ha folgorato soprattutto per una capacità di tirar fuori melodie assolutamente fuori dal comune e per un’anima classic rock che ritenevo inusitata, per una band che ha iniziato la propria carriera all’inizio degli anni ’90 (vale a dire in un periodo di confusione musicale mica da ridere).
E fu così che, andando a rispolverare l’esordio “August and Everything After”, ho scoperto i loro richiami a Dylan, a The Band, a Van Morrison, la voce spaventosamente espressiva di Adam Duritz, il suo talento mostruoso per le melodie semplici ma di spessore, il talento di tutti gli altri nel tirare fuori arrangiamenti che le valorizzino appieno.
Poi, si sa, sono bulimico, musicalmente parlando. Ho ascoltato tutto, ho cercato di assimilare tutto, in una colossale abbuffata di altri tempi, in un colpo di fulmine totale per una band come probabilmente non mi prendeva da quindici anni buoni, quando scopersi, quasi per caso, i Pearl Jam. Roba da non scherzarci sopra, dunque.
Sono arrivato davanti all’Alcatraz con tanta tensione addosso, pieno di un desiderio che aveva però un retrogusto di rammarico: non me li sarei mai goduti appieno, la mia frequentazione con loro era stata troppo breve, fugace, per potermi immergere completamente in un loro show apprezzando tutte le finezze di una setlist sempre ricca di sorprese e godendo di ogni singola nota.
Non avrei mai avuto così torto. Il concerto si è aperto con l’arpeggio di “Round Here” e già qui ho avuto un brivido perché è la mia canzone preferita, quella che conosco meglio, che ho vissuto di più, anche come testo. C’è quel verso, “Round here we talk just like lions, but we sacrifice like lambs” che mi fa struggere ogni volta, per tutta l’angoscia e la sete di verità che c’è dentro.
Ma al di là di questo, è il silenzio che è calato sul locale mentre Adam Duritz cantava, il modo con cui improvvisava sulla canzone, l’intensità che ci metteva, il modo in cui la band lo accompagnava stando bene attenta ad ogni sua mossa, giocando sui piani e i forti in modo magistrale, facendo sì che più che una canzone assomigliasse ad un viaggio verso terre inesplorate.
La pelle d’oca che mi ha preso a inizio pezzo e che non mi ha lasciato più. Il finale con quel “Come Outside” urlato da un singer quasi con le lacrime agli occhi. Ecco, io dopo tutto questo mi sono arreso. Perché dopo aver visto una cosa così, dopo aver visto sette individui andar assieme in un modo tale, comunicare una verità tale che prima di loro, solo dalla E Street Band, ecco, una cosa così mi ha fatto semplicemente dire: “Suonate quel che volete. Vi ho scoperti tardi, vi ho snobbati per tutto questo tempo, vi chiedo scusa, mi cospargo il capo di cenere, ma per favore andate avanti e non fermatevi. Lasciate pure fuori tutto quello che conosco, fate pure un concerto di sole outtakes, non mi interessa. A me interessa che suoniate tutta la sera al livello di quel primo pezzo”.
Detto fatto. Promessa mantenuta per due ore filate e concerto spaventoso sciorinato come se niente fosse. Difficile dire in cosa consista l’eccezionalità di questa band. Al di là di un Adam Duritz in forma stratosferica, mattatore assoluto in grado di incantare con la sua voce straordinaria, da sola in grado di reggere un intero show, il resto del gruppo appare preparatissimo, perfettamente amalgamato. Si muove tra i vari pezzi con naturalezza senza mai strafare, picchiando duro dove occorre farlo, addolcendosi nei momenti in cui c’è da tirare il freno, ora riempiendo, ora sottraendo, in un continuo fluire di sensazioni e colori caleidoscopici. E poi un’abilità e una disinvoltura nelle armonie vocali (quasi tutti impegnati di volta in volta dietro al microfono) da lasciare letteralmente senza fiato.
Un concerto che vive a tratti di esplosive scariche elettriche, a tratti di suadenti e malinconiche ballate, con un’esecuzione straordinariamente viva, unica e irripetibile, che mai segue pedissequamente la versione in studio ma se ne discosta spesso e volentieri soprattutto nelle linee vocali, con un cantante lanciato a briglia sciolta nelle sue improvvisazioni e in un’interpretazione che è talmente intensa da far vivere ogni brano come se fosse la prima volta.
In vent’anni di carriera i Counting Crows hanno messo insieme un repertorio di qualità altissima, praticamente senza cali, nonostante forse le vette del primo disco non siano mai state raggiunte. Ogni sera arriva qualche cosa di diverso e lamentarsi è praticamente impossibile. La serata milanese non manca dei grandi classici: “Mr. Jones”, suonata quasi in apertura, che è un po’ il simbolo di quella voglia di affermazione, di quella fuga dalle anonime periferie di cui la band californiana ha fatto il centro della propria narrativa. Poi, sempre da “August…” non può mancare “Omaha”, impreziosita dalla fisarmonica, con Duritz che si diverte a far cantare a tutti il ritornello.
Poi la pianistica “Colorblind”, le rockeggianti “Richard Manuel is Dead”, “Miami” e la potentissima “1492”, introdotta da un divertente anedotto del cantante, che ha rievocato un episodio di qualche anno fa, quando è rimasto sveglio per 72 ore a far baldoria a Milano, complice uno sciopero dei voli che gli ha impedito di recarsi subito a Monaco per un concerto.
Molto belle anche le cover, “Like Teenage Gravity” e la rara “Blues Run the Game” di Jackson Frank, suonata tra gli altri anche da Simon and Garfunkel, eseguita in un’affascinante versione per chitarra e voce.
I brani di “Somewhere Under Wonderland” fanno la loro porca figura e si amalgamano benissimo con il resto del repertorio. Colpisce, in particolare, la ballata “Possibility Days”, fra le cose migliori di questo lavoro, ma anche lo scanzonato country di “Cover Up the sun”.
Il finale è un’autentica festa, con la loro personale lettura di “Big Yellow Taxi” di Joni Mitchell e il riff danzereccio di “Hanginaround”, durante la quale sale sul palco la band di Lucy Rose al completo, che aveva aperto il set dei Crows.
Non ce n’eravamo quasi accorti, ma è già tempo di bis. La nuova “Palisades Park” è un viaggio epico di sette minuti, impreziosito da un ritornello irresistibile che ci dimostra che il loro livello compositivo non è davvero mai calato.
Poi una “Rain King” semplicemente meravigliosa, proposta in un arrangiamento diverso, con un ritornello stoppato e non lasciato correre come nella versione originale, che tuttavia non le fa perdere il suo ritmo trascinante.
Una versione struggente di “Holiday in Spain” chiude il tutto, con la band che ringrazia calorosamente, ringrazia i presenti di esserci stati, così numerosi, per tutti questo vent’anni. E poi Adam Duritz che promette che torneranno presto, prima di mettersi a ballare sulle note di “California Dreamin”, diffuse dagli altoparlanti.
Rimanere lucidi, dopo un concerto così, è veramente difficile. Il rimpianto per non averli scoperti prima, per esserseli persi tutte le volte che sono venuti da noi, ha presto lasciato il posto alla felicità di aver trovato una band come poche, capace di fare di ogni singolo show un’epifania da ricordare per sempre.
A inizio mese avevo dato la palma di concerto dell’anno alla straordinaria esibizione dei Notwist, nella suggestiva cornice del Teatro Regio di Parma. Dopo aver visto cosa hanno messo in piedi i Counting Crows, credo che dovrò pensarci per un po’.
C’è, comunque, una meravigliosa certezza: che si può andare ancora ad un concerto, dopo che ne hai visti a centinaia in venti e passa anni, e uscirne esaltati ed emozionati come bambini. Sarà anche retorico, ma sono serate come queste che salvano tutte le altre.
Grazie a Renato Cifarelli per l’utilizzo delle foto
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