Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Circolo Magnolia
Cosa spinga una band a riformarsi dopo 15 anni, avendo all’epoca registrato un disco o poco più, è un qualcosa di molto difficile da capire. Verrebbe da tirare in ballo il romanticismo dei ricordi della giovinezza, gli amici, i tempi dell’università o delle scuole superiori, quando tutto sembrava facile, senza preoccupazioni e si pensava più che altro a godersi la vita. Verrebbe da pensare che dopo tanto tempo passato a vivere la vita, venga voglia di riprendere in mano il discorso interrotto, per vedere come sarebbe andata se invece di scioglierti, quella volta avessi semplicemente deciso di continuare.
Già, probabilmente è così. Ma io sono molto più cinico ed è da un bel po’ di tempo che sto riflettendo sul fatto che di autentico, in queste reunion, non ci sia proprio niente. È un fenomeno sociale e culturale come altri, c’entra di sicuro la Retromania, che è fatta di facile reperimento del passato tramite YouTube, Spotify e quant’altro, carenza di valide alternative nel presente, sfruttamento di quell’unica generazione che è ancora nella possibilità di comperare i dischi e, probabilmente sì, anche di spendere un sacco di soldi per i concerti.
Di sicuro è così per le grosse realtà (che i cosiddetti “grandi del rock” siano diventati dei pezzi da museo, dei passatempi per ricchi annoiati, è ormai sotto gli occhi di tutti) ma vale forse anche per le realtà più piccole.
Degli American Football si è detto e scritto già molto. La band dell’Illinois, capitanata da quel Mike Kinsella che i più forse conoscono per la sua attività negli Owen, aveva realizzato un solo disco, nel 1999, ed un ep di tre pezzi, che però era uscito qualche tempo dopo. Facevano Slowcore, quel genere che all’epoca (così mi dissero) era particolarmente in auge tra i giovani (io non mi ricordo nulla ma è anche vero che in quegli anni ero perso in altre cose), portando in alto da gruppi come Low e Red House Painters (quelli di Mark Kozelek, per intenderci).
Quando uscì quel primo album, senza titolo e con la copertina meravigliosamente inquietante, quasi una versione notturna di “American Gothic”, loro si erano già sciolti e si erano sparpagliati in altri progetti. Non so cosa successe, esattamente: ebbero sicuramente delle ottime recensioni e, come spesso accade, divennero un gruppo di culto. Il classico che ti vanti di conoscere coi tuoi amici, quelli che hanno realizzato un album e poi sono spariti, quelli che non si ricorda più nessuno, tranne qualche nerd appassionato.
La realtà è stata un po’ diversa: quando nel 2015 hanno annunciato che si sarebbero riformati e che avrebbero fatto alcuni concerti nei principali festival estivi, si è generato un clamore senza precedenti. Qualcuno malignò che era tutto finto, tutto uno sfoggio di erudizione a posteriori. Altri, al contrario, lo videro come la prova lampante del fatto che quella band era stata molto più importante di quello che si sarebbe potuto pensare.
Sia come sia, la loro esibizione al Primavera Sound di Barcellona, seppure alla luce del giorno e penalizzata da qualche problemino tecnico, mi affascinò abbastanza da farmi capire che, dopotutto, avrebbe potuto anche non finire lì.
Infatti, poco più di un anno dopo, è arrivato “LP2”, che nel titolo e nella copertina ha esemplificato un messaggio semplice e diretto: riprendiamo da dove avevamo finito.
Il nuovo disco è bello, molto bello. Probabilmente soffre un po’ il confronto col suo predecessore e si sente benissimo che, nonostante il genere di riferimento non sia stato abbandonato, sono passati 15 anni e nulla può essere uguale a prima. Ciononostante, il trio americano ha dimostrato di avere ancora parecchie frecce al proprio arco, di non avere perso la propria verve compositiva e di avere forse migliorato la propria alchimia sonora.
Il tour europeo arriva a circa un anno dall’uscita del nuovo lavoro e fa tappa in Italia per una sola data, al solito Circolo Magnolia di Milano, ideale per gli appuntamenti estivi, con una programmazione che negli ultimi tempi ci ha regalato perle davvero inaspettate (vedi Lorde, Editors, Grimes, oltre agli Slowdive, in arrivo a settembre).
L’affluenza non è ancora molto alta quando, poco prima delle 21, salgono sul palco i Les Enfants, che assieme a Giorgieness apriranno la serata. La band milanese era già nota nei circuiti indipendenti grazie ad un’intensa attività live ma la partecipazione ad X Factor ne ha ovviamente aumentato la visibilità. Da parte loro, sembra che se ne siano altamente fregati: sarà che sono usciti piuttosto presto dalla gara, ma sono giustamente tornati a suonare e a scrivere canzoni, che è poi quello che riesce loro meglio. Hanno decisamente più dimestichezza con un palco vero e proprio, piuttosto che con uno studio televisivo, ed infatti nella mezz’ora che hanno a disposizione mettono in piedi un live di tutto rispetto, dove il loro Pop accattivante e sognante va a rivestire le canzoni dell’ultimo “Isole”. Non tutti i nuovi brani, a dir la verità, sono perfettamente riusciti ma la loro capacità di creare atmosfere e melodie è fuor di dubbio. Un cantato in italiano che si sposa con un sound che da noi è sempre stato un po’ di nicchia: se esplodessero sarebbe di sicuro un bene.
A ruota segue Giorgieness, in arte Giorgia D’Eraclea, arrivata pochi anni fa dalla Valtellina, che ha pubblicato nel 2016 il suo disco di debutto, “La giusta distanza”. L’avevo già vista in apertura ai Verdena sul finire della scorsa estate e avevo scritto cose non proprio entusiasmanti, mi pare. Le canzoni, in particolare, non mi avevano convinto, tanto è vero che non mi era proprio venuta voglia di andarmi a sentire il disco. Questa volta però, è successo qualcosa: sarà stata la compattezza di suono della sua band (una cosa vecchia scuola tipo basso chitarra batteria), la sua voce potente e la sua voglia di spaccare il mondo, ma sono riuscito finalmente a connettermi coi vari brani, soprattutto coi suoi testi sinceri e diretti, e ad apprezzare molto la sua scrittura. Anche lei sta sul palco poco ma riesce a scaldare a dovere l’ambiente, dimostrando una tenuta di palco invidiabile. Ci sono margini di crescita ma la strada è quella giusta, a giudicare da “Dimmi dimmi dimmi”, un brano appena uscito che ha presentato proprio in quest’occasione per la prima volta.
E finalmente ecco gli American Football. La formazione è quella solita: Mike Kinsella (chitarra e voce), Steve Holmes (chitarra), Steve Lamos (batteria e tromba), con l’aggiunta di Nate Kinsella (cugino di Mike) che dall’inizio della reunion li segue al basso.
Sono proprio gli arpeggi affascinanti e gli intrecci di chitarra di Kinsella e Holmes, a costituire la cifra stilistica della loro musica, unitamente al drumming di Lamos, sempre molto variato e dinamico, mai prevedibile. Dal vivo tutto acquista maggior tiro, grazie anche all’uso di alcuni strumenti a percussione (c’è il loro tecnico delle chitarre che spesso fa capolino on stage a suonare le maracas o il sonaglio) e seppure la voce di Mike sia a tratti impresentabile (probabilmente era in una serata no ma le stecche e le stonature, soprattutto nella prima parte, sono abbondate), la resa complessiva è ottima.
Il concerto dura un’ora e mezza ed è diviso in due parti, separate da loro da un paio di minuti di pausa. La scaletta alterna sapientemente i pezzi dei due dischi e il tutto scorre via omogeneo, senza particolare discontinuità. Certo, il pubblico, numerosissimo per un gruppo del genere, risponde in maniera entusiasta soprattutto alle cose più vecchie, con grida di esultanza dopo appena due note e cantando a memoria alcuni dei brani più famosi. Non si può però dire che le cose più recenti siano accolte male, anzi. È un gruppo che è tornato, a tutti gli effetti, con le sue melodie nostalgiche, adolescenziali, con i suoi racconti di rotture sentimentali e le sue confessioni esplicite di amori, speranze, dolori; è musica che probabilmente all’epoca si ascoltava in camera, a luci spente, sdraiati sul letto, struggendosi per non si sa quale amore lontano. Adesso, chi c’era all’epoca si ricorderà quei momenti, chi li ha scoperti ora penserà che sarebbero stati la colonna sonora perfetta per la loro adolescenza; quelli che adolescenti lo sono in questo momento, hanno ormai rivolto le loro attenzioni verso altri generi musicali (e infatti di ragazzini io non ne ho visto neanche uno, come ormai accade da tempo, a concerti di questo tipo). È un peccato, perché questa è una band che sa ancora raccontare la vita con grande autenticità e meriterebbe di essere conosciuta da chi pensa che oggi certe sensazioni le possa veicolare solo il rap.
Comunque. I nostri sembrano particolarmente in palla e infilano una canzone e l’altra senza pause, senza quasi mai parlare. Bellissimi anche gli inserti di tromba di Steve Lamos, che ogni tanto accompagna gli altri nei finali, ma molto più spesso utilizza il suo strumento per suonare brevi intro tra una canzone e l’altra. All’interno del set, c’è quasi tutto quello che ha reso grandi gli American Football: “Honestly?”, “I’ll See You When We’re Both Not So Emotional”, la splendida e lunga “Stay Home”, la vecchia “The One With The Tambourine” (dal primo ep) sono brani meravigliosi, tra i più belli composti all’interno di questo genere, tra i più belli, forse, mai usciti negli anni Novanta. Accanto a questi, a partire dall’iniziale “Where Are We Now?”, proseguendo poi, tra le altre, con “Born to Lose”, “Desire Gets in The Way”, “I’ve Been So Lost For So Long”, “Give Me The Gun”,anche i pezzi del nuovo disco fanno la loro porca figura.
Si finisce ovviamente con “Never Meant”, che è il loro brano più famoso e anche quello che la maggior parte dei presenti stava aspettando. Rimane un po’ di amaro in bocca per l’assenza, decisamente clamorosa, di un altro classico intramontabile come “The Summer Ends” ma a conti fatti è difficile lamentarsi. Al di là dei problemi vocali di Mike, è stato un concerto bellissimo e vista l’accoglienza ricevuta, è stata davvero un’ottima cosa che gli American Football abbiano finalmente trovato il tempo di passare a trovarci. L’estate è iniziata davvero nel migliore dei modi.
Grazie a Circolo Magnolia per le immagini.
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