Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Circolo Magnolia

Gli inglesi Foals hanno goduto sin dall’inizio della loro carriera, iniziata nel 2008, di una decisa visibilità mediatica. Non parlo dell’Italia, ovviamente (anche se pure nel nostro paese hanno preso piede in maniera più che discreta) ma soprattutto della Gran Bretagna e di altri paesi europei.
Il loro debutto “Antidotes” aveva, per dire, fatto gridare al miracolo una rivista seminale come NME, che da allora non ha più smesso di supportarli.

La tanto attesa risposta alle preghiere dei nostalgici del Brit Pop? Indubbiamente no, visto che il quintetto di Oxford ha ben altri punti di riferimento; eppure, se parliamo di band, fatichiamo a trovare un artista di così grande successo negli ultimi anni.
Successo nel complesso meritato, direi: la loro proposta è di indubbio valore, muovendosi come ha fatto dal Math Rock degli esordi (riferimenti più o meno espliciti ai Battles non era difficile trovarli) alla letale miscela di Funk, Post Punk, psichedelia e suggestioni progressive che ammanta gli ultimi lavori. Una band di sicuro impatto, tecnicamente brillante e in grado, nella persona del cantante e chitarrista Yannis Philippakis, di scrivere canzoni che sanno andare dritte al punto, pur conservando anche un notevole grado di elaborazione.

Quella del Magnolia è la terza data italiana nell’ultimo anno e mezzo; l’ultimo “What Went Down” è uscito verso la fine del 2015 ed è piuttosto ovvio che, con la crisi del mercato discografico che ormai non è più neppure il caso di menzionare, i tour debbano divenire sempre più estesi, se si vuole vivere di musica; con il rischio però di inflazionare la proposta, rischio che però in questo caso appare scongiurato: era pieno il Fabrique nel gennaio del 2016, risulta accettabile l’affluenza anche qui al Magnolia, seppure siamo piuttosto lontani dal pubblico delle grandi occasioni. Ma è estate, di concerti ce ne sono un sacco, a volte anche nella stessa sera, per cui spesso e volentieri bisogna scegliere.
Per quanto mi riguarda, ho scelto i Foals perché la loro precedente esibizione mi aveva convinto e sentivo il bisogno di consolidare le mie buone impressioni. Inoltre, nell’ultimo periodo ho avvertito una sorta di astio verso questa band, come se i veri intenditori di musica, i veri “alternativi”, dovessero per forza atteggiarsi in uno schizzinoso disprezzo verso un act ritenuto forse troppo “commerciale”.

Certo, se giudichiamo dalla doppietta d’apertura “Mountain At My Gates/Snake Oil”, entrambe tratte dall’ultimo disco, un po’ dovremmo dar loro ragione: si tratta di due brani di facile presa, dall’andamento accattivante e volutamente ruffiano, soprattutto nell’uso dell’elettronica e della sezione ritmica. Già la successiva “Olympic Airways” però, ci riporta nei territori di “Antidotes”, con le sue linee di chitarra complesse e crepuscolari, dimostrandosi un episodio molto più sofisticato; la prova che i Foals sono un gruppo decisamente vario, che se pur in questi ultimi anni sta giocando molto di più la carta della linearità, non per questo appare limitato dal punto di vista compositivo.
In realtà però, la cosa più importante è un’altra: dal vivo Yannis Philippakis, Jimmy Smith (chitarra), Edwin Congreave (tastiera), Jack Bevan (batteria) e Walter Gervers (basso), più un session che si occupa delle percussioni in alcuni brani, sono bravi, mettono in piedi un concerto visivamente godibile e di grande potenza sonora.

Colpisce l’impatto complessivo, valorizzato da una resa sonora finalmente all’altezza (il Magnolia non sempre ha brillato, da questo punto di vista) e il tiro pazzesco che riescono a dare a tutti i brani che via via vengono eseguiti.
Man mano che si va avanti, però, pur nel divertimento generale e nella grande partecipazione da parte del pubblico, si percepisce una certa stanchezza. La band non perde un colpo, ma l’impressione di una certa freddezza non può non trapelare; è un qualcosa di non facilmente definibile, perché formalmente tutto scorre liscio. Eppure, a tratti, sembra che stiano facendo il loro compitino. Tutto impeccabile, per carità, ma è il cuore che rischia di venire sacrificato.

Probabilmente non sono sempre stati così: chi li ha visti prima del 2015 mi ha raccontato di un’attitudine molto più selvaggia e distruttiva, che non è certo rintracciabile questa sera, così come era risultata non pervenuta nella data del Fabrique.
Potrebbe forse anche dipendere dai brani: la scaletta ripercorre un po’ tutti e quattro i loro dischi e se ci sono alcuni episodi che sono indubbiamente di prima categoria, come “My Number” (uno dei singoli più azzeccati degli ultimi anni, per quanto mi riguarda), “Inhaler”, “What Went Down”, è altrettanto vero che in più di un frangente si viene sì trasportati dal ritmo e dal groove, ma senza che il brano in questione sia mai perfettamente a fuoco.

Accade soprattutto durante i pezzi più lenti ed elaborati: se “Spanish Sahara”, con il suo intensissimo crescendo, è uno degli episodi migliori della serata (non a caso è tratto da “Total Life Forever”, forse il loro miglior lavoro, in questo tour purtroppo molto trascurato), altre cose, come “Late Night”, “Night Swimmers” o “Heavy Water”, mancano un po’ di coesione e rischiano di perdersi via.
Un’ottima band con un repertorio non sempre all’altezza, dunque. Se le cose stanno così, allora forse la causa del disagio che ci ha preso in certi momenti, potrebbe essere facilmente spiegata.
Ad ogni modo, la grinta dei bis, con una “What Went Down” finalmente bella carica, con Yannis che si butta in mezzo al pubblico, e una “Two Steps, Twice”, che mette in luce tutta la loro bravura esecutiva, fanno terminare questo show su una nota positiva.

In conclusione, non me la sento di dire che i Foals siano una band sopravvalutata. Si meritano senza dubbio il successo che stanno ottenendo, molte delle critiche che ricevono mi sembrano prive di fondamento e motivate soprattutto dal pregiudizio.
Detto questo, margini di miglioramento ce ne sono ancora parecchi. Da questo punto di vista, la strada intrapresa con i primi due dischi era quella buona ed è un peccato che sia stata parzialmente abbandonata in favore di una maggiore semplicità di fondo. Attendiamo il prossimo lavoro, che di tempo ce n’è. Nel frattempo, abbiamo comunque passato un’ottima serata in loro compagnia.