Articolo di Luca Franceschini
E così finalmente ce l’ho fatta a vedere un concerto dei Pumarosa. La band londinese avrebbe dovuto partecipare alla giornata dell’I-Days il giugno scorso, quella dove suonarono anche Radiohead, James Blake e Michael Kiwakuna ma all’ultimo momento non si sono presentati (la cantante Isabel mi dirà poi che era malata ma che non avevano voluto dirlo… boh!). Avevo goduto alla notizia che i cinque avrebbero aperto alcune date del tour dei Depeche Mode nei palazzetti ma poi si è saputo che, ovviamente, a Milano non ci sarebbero stati.
Tutto questo fino a quando è stata annunciata una data da headliner al Circolo Magnolia, approfittando di un day off di Dave Gahan e soci.
La neve, caduta in maniera insignificante durante la giornata ma si sa come funziona da queste parti, stava per far saltare anche questa occasione. Per fortuna sono riuscito a raggiungere il locale senza particolari problemi anche se, evidentemente, tante persone si sono fatte spaventare dalle condizioni e dagli allarmismi eccessivi.
Per farla breve, il Magnolia, a pochi minuti dall’orario fissato per l’esibizione, è quasi del tutto deserto. Appena venti persone (le ho contate) sostano con aria pigra e infreddolita davanti allo stage piccolo che, a questo punto, risulterà perfetto anche e nonostante la sua pessima resa sonora.
Ma sinceramente mi importava poco: “The Witch”, il disco d’esordio dei Pumarosa, è arrivato come un fulmine a ciel sereno questa primavera e da allora è stato decisamente difficile smettere di ascoltarlo. Un songwriting di livello, affidato alla cantante e chitarrista Isabel Munoz-Newsome, che incorpora nel Pop sinuoso e darkeggiante che costituisce la sua proposta, influenze a metà tra lo psichedelico e il tribale, in non pochi casi provenienti dalle sue origini cilene. Canzoni ben costruite, con lunghe code pulsanti ed elettroniche, ritornelli efficaci, un’aurea oscura ma allo stesso tempo potentemente radiofonica. Aggiungiamo il superlativo lavoro di produzione di Dan Carey e scopriremo che non è un caso se i Depeche Mode li hanno voluti con loro: abituati come sono a districarsi tra generi e tendenze, è più che ovvio che ne abbiano intravisto le enormi potenzialità.
E anche dal punto di vista della professionalità, ne hanno indubbiamente da vendere: non dev’essere facile passare dalle arene stracolme allo squallore di un locale dove anche a luci spente puoi contare le persone presenti. Eppure, per loro non ha fatto nessuna differenza. Hanno suonato con energia, potenza e passione come se si trovassero di fronte all’occasione più grande della loro vita. Isabel, che sul palco è carismatica e sensuale e che quando non suona la chitarra si muove con danze sciamaniche al ritmo ondeggiante della musica, non ha perso occasione per ringraziare i presenti per essersi presentati lo stesso “in questo locale sperduto in mezzo ad un parco con la neve”.
Le canzoni saranno anche tutte sue ma senza l’apporto dei suoi compagni d’avventura non sarebbe la stessa cosa: il chitarrista Neville James, l’ultimo arrivato nella formazione, si sobbarca gran parte del lavoro e i suoi arpeggi minimali dal colore oscuro danno ai brani quella connotazione Wave che li rende più affascinanti. Indispensabile anche il tastierista Tomoya Suzuki, che si occupa anche delle piccole dosi di elettronica presenti nei vari episodi e impreziosisce certe code psichedeliche con degli ottimi inserti di sax.
La sezione ritmica, col batterista Nick Owen e il bassista Henry Brown (fondatore del progetto assieme a Isabel) fa il suo dovere e pur con qualche sporadica sbavatura riesce a tenere costante la tensione.
Ne deriva un quadro potente e preciso, un tiro notevole al servizio di pezzi di altissimo livello. Avranno suonato anche davanti a pochi intimi ma è stato un concerto pazzesco.
In scaletta tutto il disco, con gli highlight assoluti rappresentati ovviamente dalla title track, dal rito sciamanico di “Priestess”, con le sue pulsazioni Dark e il suo finale ipnotico e ossessivo e dalla conclusiva “Snake”, che si muove più o meno sulle stesse coordinate e si è rivelata grandiosa nel suo mix di tensione, potenza ed oscurità.
Interessante e gradito anche il primo singolo “Cecile”, tratto dal loro 7” di esordio, un brano diretto e coinvolgente dalle ritmiche incalzanti e una melodia vocale irresistibile. Sarebbe già bastato un biglietto da visita così per capire di che cosa stiamo parlando.
I nostri concedono anche un bis perché, è giusto dirlo, i venti presenti sono anche calorosi ed entusiasti e non mancano di gridare ed incitare il gruppo a ricomparire in scena. Tutto questo non può che far bene tanto che “My Gruesome Lovin’ Friend” viene vissuta come un regalo personale fatto a ciascuno.
È stato speciale, indubbiamente. Non è stato solo il senso di privilegio ed esclusività tipico del condividere un evento con pochi intimi, non è stato solo l’atteggiamento snobistico di chi c’era e apostrofa gli altri con un altezzoso “Cosa vi siete persi”. È stato soprattutto l’aver assistito ad un’esibizione maiuscola da parte di un gruppo giovane, dalle potenzialità enormi, che si è divertito a suonare in una situazione che avrebbe potuto essere sconfortante. Sarà banale ma non è mai scontato ed è giusto riconoscerlo, quando lo si vede.
Credo che se tutto andrà come deve andare, questa band conquisterà presto platee ben più prestigiose. Ricordatevelo quando accadrà, che vi siete fatti spaventare da due fiocchi di neve.
NB: foto dal web (causa penuria di fotografi)
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