Articolo di Luca Franceschini,

Immagini sonore di pearljamonline (Henry Ruggeri) e I-Days (Francesco Prandoni, Elena Di Vincenzo, Fabio Izzo)

E’ difficile parlare di un concerto dei Pearl Jam nel 2018 senza tirare in ballo quel che la band è stata nei quasi trent’anni della sua storia e quel che ancora potrà essere nel futuro che le rimane da scrivere.
Unica band Grunge ad uscire indenne da quella stagione tanto fortunata quanto breve, si è trasformata in qualcos’altro ed ha travalicato definitivamente quel confine che separa un normale gruppo rock con la sua carriera ed il suo pubblico, da un autentico fenomeno di costume.

Non so, probabilmente questa cosa in America è iniziata molto prima ma da noi l’episodio spartiacque è il 2014, col concerto di San Siro e il suo sold out al limite del clamoroso. Molto aveva sicuramente giocato Eddie Vedder con “Into the Wild”, album senza dubbio bellissimo ma pericolosamente incline a farsi amare da tutti, anche da quelli che “mi piace la musica ma ascolto un po’ di tutto, non saprei dirti dei nomi di artisti che mi piacciono”.
Per cui ecco che il pubblico generalista nel giro di pochi anni si è impadronito anche dei Pearl Jam, che hanno suonato nel posto peggiore dove si possa suonare in Italia: Stadio “Giuseppe Meazza” di Milano, quartiere San Siro, altrimenti detto “La Scala del calcio”. Del calcio, appunto. Per la musica è un immondezzaio e tutti quelli che vi diranno il contrario, che lo vogliano o no, cedono al sentimentalismo e, nel peggiore dei casi, alla dipendenza da Social Network. Per carità, ognuno è libero di fare quel che vuole, l’importante è chiamare le cose col loro nome.
Comunque sia, nell’anno 2018, con l’ultimo disco (orrendo) che risale al 2013 e un nuovo singolo (l’aggettivo adatto per definirlo lo devono ancora inventare) uscito da pochi mesi, la band di Seattle si prepara a calare nuovamente in Europa per la canonica serie di date estive, equamente divise tra Festival e concerti singoli.

Una volta ogni quattro anni, come coi mondiali, sempre nell’anno dei mondiali. Un bel passo avanti, se consideriamo che in precedenza ci sono stati dei tour in cui il Vecchio Continente è stato crudelmente snobbato (la rabbia che mi hanno fatto ai tempi di “Riot Act” non è stata ancora smaltita a fondo).
Io continuo ad amarli, nonostante li abbia visti tante volte, nonostante abbia già ascoltato un buon 70% del loro repertorio dal vivo, nonostante ormai sia evidente che il periodo di grazia sia definitivamente passato. Non sono mai riuscito a stare lontano dal loro richiamo, per vederli ho sempre fatto chilometri, qualche volta sono andato anche all’estero ma credo di essermi decisamente superato, quest’anno: ho infatti deciso di andare a Milano, nell’ambito dei famigerati e farseschi I-Days, che a questo giro si sarebbero tenuti nella sedicente “Area Expo”.
Ora, chiunque si ricordi dell’Heineken Jammin’ Festival ed abbia ancora un minimo di raziocinio (che vuol dire anche solo essere convinti che la frase “I concerti con tanta gente sono i più belli!” sia una vaccata gigantesca) capirà perfettamente che questi maledetti I-Days altro non sono che una riedizione della rassegna più casuale e generalista del mondo, altrimenti detta “Il festival di quelli che non capiscono un cazzo di musica ma che una volta all’anno devono dire di essere stati ad un concerto per fare i fighi”. E anche qui, non voglio mancare di rispetto a nessuno. Perché ognuno, giustamente, fa le sue scelte. Ma ancora una volta, bisogna essere oggettivi. Chi c’era a Venezia nel 2010 sa di cosa parlo e chi dice il contrario o è in malafede o era troppo ubriaco per ricordarsene.
L’Area Expo, ad ogni modo, non fa neanche così cagare: si trova in fondo al famoso Decumano e fa impressione notare come alcuni dei padiglioni e l’albero della vita siano ancora lì, in attesa che qualcuno si decida di riutilizzarli in qualche modo. C’è un mare di gente, si cammina parecchio per arrivare sotto al palco, ci sono sempre i famigerati token (ma qui basta portarsi i panini da casa per non rendersi complici di una chiara e lampante circonvenzione d’incapace) e chi è in fondo continuerà a non vedere una mazza. Tutto sommato però, rispetto all’inferno dello scorso anno al Parco di Monza, le cose sono andate direi discretamente.

Soprassiedo su Catfish and the Bottlemen e Stereophonics, perché non mi sono mai granché interessati: due buoni show, soprattutto i secondi (che comunque di mestiere ne hanno a iosa) ma due proposte musicali che ho sempre trovato leggerine e inconsistenti.
Della voce di Eddie Vedder si sapeva, purtroppo. Hanno posticipato la seconda data di Londra e ha avuto poco meno di quattro giorni per cercare di rimettersi a sesto. Io, che sono un fan ma che sono anche cattivo, spesso e volentieri, dico che va bene, sarà pure giù di tono, ma non è che quando stia bene le cose cambino, eh! Saranno almeno otto anni che non è all’altezza della sua fama per cui, cosa mai potrà cambiare un piccolo malanno?
In realtà cambia eccome. Aprono con “Release” ed è la “Release” più scarsa della loro storia, probabilmente. Lui è da subito palese che non ce la fa. Lo dice anche esplicitamente, con quegli scalcagnati discorsi in italiano che si ostina a leggere ogni volta che viene da noi: “Questa sera voi siete parte della band”. Abbastanza esplicito, direi.
E in effetti la serata sarà per buona parte un gigantesco karaoke, col singer che punta molto sul carisma (e ne ha ancora da vendere) e sul fatto che, almeno i classici, la maggior parte dei presenti li conosce. Ne verrà fuori uno show compatto, con una band che suona da Dio (questo per fortuna continuano ancora a farlo), e che questa sera dilata molto di più i finali e improvvisa a lungo sugli assoli, trascinata da un Mike Mc Cready che è sempre mattatore assoluto. “Porch” dura dieci minuti, “Evenflow” è un’unica onda di energia, “Black” vive soprattutto dei battimani e dei cori del pubblico.

Un concerto trascinato a forza sulle ali dell’entusiasmo e del sentimento, ma che è tutt’altro che una mera passerella da festival: i cinque (dovremmo dire sei ma il mitico Boom Gaspar sinceramente non sono mai riuscito a sentirlo) si producono in una versione di “Immortality” che è da pelle d’oca anche con un Eddie a mezzo servizio. Stessa cosa per “Footsteps”, che non è proprio uno dei pezzi che senti ad ogni loro concerto. E ancora, delle rarità da intenditore come “You Are” e “Mankind” (quest’ultima inserita probabilmente per evitare a Vedder un ulteriore sforzo, visto che è da sempre un brano di Stone Gossard): non le conosce nessuno, smorzano completamente il clima ma io me ne frego, vengono eseguite alla grande e per me è il momento più bello del concerto.
Chiusura classica, con il solito tripudio di luce e tamburelli di “Rockin’ in the Free World” e “Yellow Ledbetter” con le sue parole improvvisate, che da vent’anni funge da saluto ai presenti. Due ore scarse di durata, 18 pezzi suonati, escludendo la strumentale “Eruption”, che ha visto il solo Mc Cready sul palco. Ci sta, era un festival (almeno da un punto di vista formale) e loro nei festival suonano sempre meno. In più, è comprensibile che abbiano voluto preservare la salute del loro cantante. Diciamo comunque che, date le premesse, non è andata poi così male: “Il più bel concerto di merda dei Pearl Jam”, pare abbia detto qualcuno. Ecco, direi che abbiamo un vincitore.

A Padova c’è tutt’altra atmosfera. L’Euganeo è più raccolto e nonostante una logistica da malati di mente che ci costringerà a notevoli code in entrata e in uscita, il luogo è senza dubbio più adatto ad accogliere un concerto. Qui i Pearl Jam non avevano mai suonato e infatti Eddie dedica alla città veneta una sorta di serenata in italiano subito prima di attaccare “Corduroy”: esito improbabile ma almeno chi non veniva da fuori (pochi, immagino) avrà gradito.
Il cantante stasera sta meglio, molto meglio. Prova cautamente a testarsi con le iniziali “Pendulum” e “Low Light”, che costituiscono un inizio soffuso, quasi in sordina ma molto efficace. Personalmente, li preferisco quando iniziano in questo modo.
Il seguito però è bello energico, col trittico “Last Exit”, “Do The Evolution”, “Animal”: il gruppo è in palla come sempre e lui questa volta è in grado di condurlo per mano senza particolari problemi. Possiamo dire che sia tornato sui normali livelli di questi anni: lontano dallo splendore ma comunque più che dignitoso. Per un concerto che era stato molto vicino all’annullamento, è di per sé una splendida notizia.
Rispetto a Milano, è uno show nettamente migliore. Più lungo, più compatto, più vissuto. Alcune esecuzioni sono straordinarie per intensità e potenza, tipo il roccioso mid tempo di “Not for You” o l’inaspettata “God’s Dice”, da sempre considerata un pezzo minore ma in verità tutt’altro che trascurabile. Di chicche da fan ne arrivano, a partire da una “Red Mosquito” affascinante o alla bside “Down”; in mezzo una inutile “Mind Your Manners” e una straripante “Spin The Black Circle” dedicata a Jack White (probabilmente perché è nota la sua passione per i vinili?).

“Porch” dura un po’ di meno ma “Evenflow” vede un lungo solo di Mike, pittorescamente con la chitarra dietro la schiena; “Daughter” è pomposamente dedicata a Trump, mentre nei bis, che tornano ad essere divisi in due sezioni come da tradizione, compaiono perle del calibro di “Inside Job” (esecuzione da brividi) e “Crazy Mary”, la cover di Victoria Williams che però ormai è un pezzo loro. Momento più alto del concerto, musicalmente parlando, con un solo di Hammond da parte di Boom Gaspar (eh già, finalmente riusciamo a sentirlo) che spacca veramente il cuore.
Anche il finale è diverso, quasi che la ritrovata forma del loro frontman e la bella cornice in cui si stanno per la prima volta esibendo, meritasse un ringraziamento particolare: un’infuocata versione di “Baba O’ Riley” che, quasi bruscamente, lascia il posto ad “Indifference”, per un congedo che non credevo adatto agli spazi aperti e che invece ha funzionato benissimo.
Sono state due Belle serate ma non credo che andrò più a vederli, i Pearl Jam. Mentre uscivo dall’Euganeo ho capito che la prossima volta, molto probabilmente, non cederò al loro richiamo. È un amore ormai quasi ventennale ma temo che non siano più in grado di darmi quel che cerco. Probabilmente l’anno prossimo arriverà un nuovo disco e altrettanto probabilmente, sarà una cagata pazzesca. Storicamente sono finiti, a meno di improbabili colpi di coda e non credo che affermarlo con tale perentorietà costituisca una mancanza di rispetto nei loro confronti. Ogni gruppo ha un ciclo vitale e questo ciclo vitale non è mai eterno: che decidano o meno di continuare, questo non muta i termini della questione, considerando che il mondo è pieno di band che si trascinano tra studio e palco come dei cadaveri ambulanti.
Non è il caso dei Pearl Jam: il loro tempo è finito ma dal vivo ci sono ancora, pur se lontani dallo splendore di un tempo. Continuate pure ad andare a vederli, se ne avete bisogno, ma non pensate neppure per un istante che la storia della musica possa passare ancora da loro.

Photo credits:
pearljamonline [02,04,06,08,10,14]
I-Days [01,03,05,07,09,11,12,13]