Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Nicola Braga (Relics – controsuoni)
Qualche settimana fa ci eravamo fatti raccontare dal direttore artistico Viola Costa la genesi di Iride, nuova rassegna musicale, da tenersi nella cornice del Castello Visconteo di Pavia. L’idea, ci era stato spiegato, era quella di valorizzare una città bellissima, ricca di arte e storia, ma troppo spesso messa in ombra dalla vicina Milano, di cui ha sempre avvertito l’ingombrante presenza.
Ora, non so come andrà questa iniziativa, che futuro avrà in termini di risposta del pubblico e di radicamento nel territorio. La cosa certa, però, è che tutte le promesse della vigilia sono state mantenute.
La location è straordinaria: il castello, da sempre ben conservato, architettonicamente uno dei siti più affascinanti che abbiamo in Italia per quanto riguarda il Medioevo, è la cornice perfetta per il “teatro all’aperto” che è stato allestito. Il palco si trova infatti all’interno del cortile, così che siamo circondati dalle pareti dell’edificio, illuminate per l’occasione, a tutto vantaggio della resa visiva. Platea e gradinate sono molto raccolte, 1800 posto totali, con una vista del palco comodissima, anche per chi si trovasse nelle retrovie.
Si dovrebbe solo migliorare dal punto di vista dei servizi: il bar è uno solo (anche se dalla sua ha in dotazione delle ottime birre!) e quando arriviamo la coda è già chilometrica. Lodevole però la decisione di non servire da bere durante i concerti: in questo modo si è evitato e si eviterà il fastidioso via vai che ormai pare essere divenuto il vero protagonista in fatto di musica dal vivo.
Ma forse, in questo caso specifico, non ce ne sarebbe stato bisogno: il pubblico questa sera è attentissimo, silenzioso e partecipe. Ci sono i soliti telefonini qua e là ma niente di nevrotico come in altre occasioni. La band suona, la gente (seduta) ascolta. Probabilmente non si trattava di una platea composta esclusivamente da fan dei Mogwai: al di là di qualche applauso di riconoscimento sui pezzi più classici, la sensazione è che in tanti fossero lì per curiosità o per una conoscenza solo generica della band. E attenzione che non c’è nulla di male: avercelo, un pubblico così attento e interessato!
Gli scozzesi salgono sul palco poco prima delle 22 e attaccano immediatamente con “Hunted By a Freak”, uno dei loro pezzi storici. Dire qualcosa della loro esibizione non mi riesce facile: è la prima volta che li vedo dal vivo, più o meno sapevo cosa aspettarmi e più o meno, quello che attendevo si è concretizzato. Ciononostante, le suggestioni date dal concerto non sono per nulla convertibili in parole. Questo è un gruppo che travalica completamente qualunque concezione di genere, che sarebbe senza dubbio limitato definire “Post Rock” (etichetta che, comunque, hanno contributo abbondantemente a plasmare e codificare) e che ha sempre scritto utilizzando la ripetizione, le brevi frasi musicali, l’alternanza di momenti di atmosfera ad improvvise esplosioni elettriche, l’intreccio indissolubile tra tastiere e chitarre, come strumenti privilegiati per trasmettere una visione di grande fascino, che va goduta solo lasciandosene totalmente afferrare.
Del resto, dal punto di vista visivo non offrono molto: le luci sono molto belle ma il loro gioco è tutto sommato canonico; i quattro non si muovono, ogni tanto si sorridono, appaiono totalmente rilassati e compiaciuti, ma lasciano che sia la loro musica a parlare per loro. Stuart Braithwaite, il membro probabilmente più rappresentativo, ringrazia in italiano dopo ogni pezzo come un signore beneducato e ad un certo punto c’è un momento simpaticissimo e fugace (non so in quanti l’avranno colto, non è stato molto plateale), in cui Dominic Aitchison e Barry Burns si sono messi ad esultare, probabilmente dopo aver ricevuto la notizia che l’Inghilterra era stata sconfitta dalla Croazia nella semifinale mondiale. Da buoni scozzesi, è un’ipotesi molto più che verosimile…
“Every Country’s Sun” è uscito ormai da più di un anno, i doveri promozionali sono finiti ma comunque in scaletta ce n’è ancora una buona parte: scompare il singolo “Coolverine” ma rimangono una splendida “Crossing the Road Material” e un’altrettanto affascinante “Party in the Dark”, unico brano cantato in tutta la setlist di stasera; oltre che episodi molto rappresentativi di questo lavoro come la title track, “Old Poisons” e “Don’t Believe the Fife”.
Ottima la resa sonora, con tutti gli strumenti ben bilanciati e lo show più o meno diviso in due parti, con Barry Burns che verso la fine lascia la tastiera per imbracciare la chitarra, donando ai brani una spinta elettrica maggiore. Da questo punto di vista, il classico “Mogwai Fear Satan”, suonata subito prima dei bis, si risolve in una mazzata priva di compromessi, ben più aggressiva che nella sua versione in studio. In questo aiutano i volumi, tenuti molto alti come da tradizione di questa band e che anche nello spazio aperto fanno il loro bell’effetto, con le frequenze basse che arrivano direttamente in gola.
La chiusura, affidata alla sempre magnifica “New Paths To Helicon Part 1”, pone il suggello ad un’esibizione forse un po’ breve (non più di un’ora e mezza) ma intensa, da cui non si può francamente uscire delusi.
Tornando a casa pensavo che li avrei rivisti suonare anche il giorno dopo ma so che fanno questo effetto anche a chi li segue da anni. Ci sarà una ragione se hanno un pubblico fedele e appassionato in ogni parte del mondo!
Anche a Pavia, la risposta è stata soddisfacente: gli spazi vuoti sulle gradinate era difficile non vederli ma stiamo parlando di una band di culto, in una zona molto decentrata per gli standard italiani. Iride pare quindi aver vinto la scommessa: chissà mai che non ci ritroveremo tra le mani un altro bell’appuntamento musicale, con cui allietare le serate estive.
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