Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Claudia Losini
Non sembrerebbe ma il Club to Club ha ormai compiuto diciott’anni. Il festival torinese, da sempre dedicato alla musica elettronica in tutte le sue sfaccettature e tendenze, oltre che a tutto ciò che è “avanguardia” nel mondo del Pop, edizione dopo edizione si è allargato sempre di più, fino a divenire uno degli appuntamenti più importanti in Europa per questo genere di sonorità. C’è un sacco di gente che viene da fuori, in effetti e girando per i padiglioni del Lingotto adibiti all’evento, si sentono parecchi idiomi stranieri: un effetto da me sperimentato solo al Primavera Sound (anche se lì di solito accade il contrario: ovunque si vada, si sente parlare italiano) e che da solo dice molto dell’appeal assunto da questo evento.
A questo giro ho deciso di andarci anch’io. La scena dei club non è mai stata il mio forte ma ormai da tempo il cartellone è pieno anche di nomi più “canonici”, se vogliamo, artisti che non sono per forza di cose riconducibili all’elettronica anche se accomunati comunque da una certa attitudine sperimentale e da suoni più in linea con le ultime tendenze di mercato e costume.
Il Club to Club poi è molto di più di un festival musicale: nei quattro giorni che dura la manifestazione ci sono anche workshop, conferenze, installazioni ed eventi paralleli (quest’anno c’era l’australiana Robin Fox col suo nuovo spettacolo di musica e laser, andato in scena alle OGR e da me purtroppo saltato per incompatibilità di orari). Una sorta di immersione globale nel mondo delle arti, che non attira a Torino solo giovani desiderosi di tirare le sei del mattino con alcuni dei dj più importanti del pianeta.

L’organizzazione, al netto di qualche piccolo inconveniente (l’apertura ritardata il venerdì sera, l’impossibilità di rimettere piede nell’area concerti una volta usciti, i cocktail annacquati e imbevibili a prezzi decisamente caricati) si è dimostrata efficiente. Gli spazi ampi e a scorrimento veloce, una zona di bagni grande abbastanza da evitare le code, un’ampia area fumatori all’esterno, funzionale nonostante una security un po’ troppo zelante nel sequestrare accendini, una postazione di distribuzione acqua, con una bottiglietta in omaggio per ogni biglietto acquistato.
La resa sonora forse andrebbe migliorata perché non sempre è stata all’altezza dei grandi nomi coinvolti (alla fin fine si tratta di capannoni per cui forse più di tanto non si riesce a fare ma è indubbio che qualche disagio lo si sia patito) ma tutto sommato sono uscito dalla mia personale due giorni con un’impressione nettamente positiva.
Le cose qui succedono da giovedì a domenica ma alla fine sono il venerdì e il sabato quelli con il grosso degli artisti in cartellone. Due palchi solamente, il Main Stage (altrimenti denominato “Lingotto”) e il Crack Stage, più piccolo ma spazioso a sufficienza. Si suona in contemporanea, come è giusto che sia (la gente è tanta, occorre tenere separati i flussi) e quindi è fisiologico perdersi qualcosa.
L’ho già detto, l’elettronica non la seguo e la capisco poco o nulla. Non vuol dire che non la apprezzi, tutt’altro; il problema è che io vengo dalla vecchia scuola e quando sono sotto ad un palco voglio capire bene cosa accade sopra, chi suona e cosa e perché. Con i Dj questo è un po’ più difficile, se non impossibile; ballare non lo so fare, ragion per cui ho sempre trovato i Dj set o comunque li si voglia chiamare, particolarmente dispersivi, pur capitandomi spesso e volentieri di apprezzare la musica che viene suonata.

Tutto questo non tanto per giustificarmi quanto per spiegare che la mia presenza a Torino era dovuta ad artisti di altro tipo, peraltro non facilissimi da vedere dalle nostre parti.
Venerdì sera erano di scena i danesi Iceage, col loro Punk sbilenco ma anche sorprendentemente eclettico, con tanto di violino, tastiera e sassofono, inseriti in pianta stabile all’interno di un sound grezzo ma anche profondamente stratificato. Il loro “Beyondless” è un piccolo gioiello di quella rinascita di musica chitarristica che si nutre tanto di suggestioni del passato pur senza essere nostalgiche e i 45 minuti del loro set lo hanno fatto ben capire. Sono stati forse i più penalizzati dai suoni (chitarra assente nei primi brani, poi il tutto un po’ confuso, con fiati e archi un po’ in secondo piano) ma hanno sfoderato una prestazione invidiabile, aggressiva e precisa allo stesso tempo, coadiuvati da un light design coloratissimo.
A ruota, mentre sul Crack Stage Elena Colombi incantava con un set molto vario, passando dall’Ambient alla Techno, sono andati in scena i Beach House. Con la band di Baltimora era la mia quarta volta ma non è mai abbastanza. Come sempre quel che colpisce di loro è la pulizia sonora e il modo assolutamente magistrale che hanno di riempire gli spazi pur essendo solamente in tre. Dalla voce di Victoria LeGrand alle chitarre magistrali di Alex Scally, passando per il serrato lavoro ritmico di James Barone, ormai impossibile da non considerare un membro a tutti gli effetti, ancora una volta la parola d’ordine è “meraviglia’”.

Una scaletta tutto sommato canonica, dove hanno trovato spazio anche le canzoni dell’ultimo “7”, bellissimo anche se poco ha aggiunto ad un cammino artistico fin qui invidiabile. Un’ora e mezza volata via in un soffio, tra gli incanti di “Space Song”, “Walk in the Park”, “10 Mile Stereo”, “Wish” ed altre perle assolute del Dream Pop. Spiace solo per il fastidioso chiacchiericcio che a più riprese ha disturbato la loro esibizione. Volete ballare? O arrivate dopo o andate nell’altra sala. Ma ho idea che questa sia sempre di più una battaglia persa.
Il sabato per me è stato soprattutto Blood Orange. Avevo già visto Devonté Hynes tre anni fa, il suo talento mi aveva impressionato e mi mancava da morire. I sessanta minuti andati in scena sul Main Stage sono stati uno di quegli eventi da tenere fissi nella memoria e da contemplare periodicamente, anche perché dubito che potremo rivederlo a breve dalle nostre parti.
Sul palco sono in sette, comprese due coriste e sono tutti incredibili. Funk, Rnb, Neo Soul, tutto fuso insieme in canzoni che hanno tutta la grandezza e l’autorevolezza di nomi come Prince o Stevie Wonder ma che allo stesso tempo non risultano per nulla derivative. Dev in scena è una bomba: suona (benissimo) la chitarra, va al pianoforte, canta in maniera pazzesca e i suoi compari gli vanno dietro con naturalezza, imprimendo a tutta la performance un groove irresistibile. Ecco, senza polemica perché si tratta di un altro genere ma uno show come quello messo in piedi dall’artista inglese a mio parere possiede un impatto ed una capacità di fascino che nessuna consolle potrà mai dare.

Era atteso anche Yves Tumor, nome d’arte di Sean Bowie, originario del Tennessee (in teoria, perché lui stesso si diverte a confondere le carte, quando si parla della sua biografia) e autore di un terzo disco, “Safe in the Hands of Love”, che per chi scrive è stato un’autentica sorpresa. Esce per Warp Records e già questo dovrebbe essere un dato sufficiente per capire chi abbiamo di fronte ma ascoltando il suo personale miscuglio di R’n’B, Post Punk, Vapor Wave, Noise e qualunque altra etichetta vogliate inserire (perché alla fine nella sua musica c’è davvero di tutto), viene in mente che sia uno che più di tutti sia in grado di scrivere davvero il futuro della musica. Un futuro senza generi né etichette, dove la componente digitale avrà un vero e proprio strapotere ma dove l’inventiva e la personalità del singolo artista possono davvero fare la differenza. Dal vivo è coinvolgente, ha una presenza scenica magnetica e molto fisica, si denuda dopo poche canzoni e canta spesso tra le prime file, urlando in faccia ad un pubblico ancora non del tutto presente. Peccato solo per l’uso esclusivo delle basi: ho sempre l’impressione che bisognerebbe essere più coraggiosi nel portare sul palco queste sonorità e che campionare una chitarra su un disco vada benissimo ma fare lo stesso dal vivo sia un po’ una forzatura.
È un po’ la stessa sensazione che mi ha lasciato il breve set di Serpentwithfeet, andato in scena sul Crack Stage subito dopo Blood Orange. L’americano Josiah Wise, che è uscito quest’anno con un buon disco di debutto, “Soil”, ha una voce splendida ed è interessante per come devasta l’anima Gospel e Soul delle sue canzoni con Beat oscuri e sonorità inquietanti. Eppure, proprio per l’esclusiva presenza delle basi, i momenti più intensi di un’esibizione comunque non immediata, sono stati indubbiamente quelli in cui ha cantato accompagnandosi alla tastiera; lì si è potuto infatti toccare con mano la sua grandezza di performer.

Per quanto riguarda invece i due nomi principali in cartellone, non ho apprezzato particolarmente Jamie XX, troppo monocorde e con i bassi sparati fino all’eccesso, mentre invece, contrariamente alle mie previsioni, Aphex Twin mi ha davvero incantato. Per carità, l’importanza di Richard D. James nel panorama elettronico contemporaneo non si discute ma non ero per niente preparato a quel che sarebbe accaduto. Sono stati 90 minuti di totale annullamento, dove l’incessante fluire della musica si è accompagnato ad un gioco di luci stupefacente, con massiccio uso di laser e visual di grande impatto, con tutta una sezione dedicata a personaggi della storia e della cultura italiana (immancabili i richiami al grande Torino e alla Juventus contemporanea, quest’ultima particolarmente fischiata dai presenti). Descrivere quel che si è sentito è impossibile, anche perché lui stesso, nelle sue composizioni, si muove su territori differenti. Si è trattato comunque di un’immersione totale, dove più che ascoltare quel che veniva suonato occorreva lasciarsi trasportare dal martellamento ossessivo delle ritmiche, peraltro estranee ad ogni tipo di “ballabilità” canonica e conquistare dalle frasi melodiche che man mano ci proponeva.
Non so gli altri ma io dopo un’esperienza del genere, completamente svuotato, non avevo più ragione per rimanere. Giusto il tempo di registrare la presenza a sorpresa di Kode9 (ogni anno c’è uno slot contrassegnato dal punto di domanda, che viene svelato solo quando il diretto interessato si presenta sul palco) e non di Liberato, come volevano voci impazzite, ed è tempo di tornare a casa.
Non è il mio mondo ma la varietà del programma e il livello dei nomi in cartellone hanno reso questa edizione del Club to Club davvero memorabile. Anche noi italiani abbiamo qualcosa di cui andare fieri ed è giusto sottolinearlo. Mi sa proprio che l’anno prossimo ci rivedremo.





7 novembre 2018 at 12:35
C’eravamo anche noi per i Beach House (splendidi).
Ha lasciato molto a desiderare l’acustica, non rendeva giustizia ai Beach House, forse per gli altri gruppi andava bene.
https://www.sullamaca.it/musica/beach-house-torino-02-11-2018/