Articolo di Luca Franceschini.

Si potrebbe fare un pezzo solo sulla decisione di Flavio Pardini, in arte Gazzelle, di intitolare “Punk” il suo nuovo disco, il secondo della sua carriera. Già me li vedo gli antipaticissimi professorini della nostra critica musicale o gli esperti da tastiera, sentenziare che “Come si permette questo ragazzino di usare una parola sacra per definire un disco pieno di canzoni di merda.”. In realtà un po’ è vero. Se usi come titolo un vocabolo così semanticamente potente, così storicamente e sociologicamente connotato, una qualche reazione te la devi aspettare. Poi è vero che se uno va a vedere il testo della canzone che dà il titolo all’album, si accorge che la parola incriminata fa semplicemente parte della storia raccontata, quella degli alti e bassi di un rapporto con una ragazza un po’ particolare.

Noi non siamo ingenui, però: un conto è scrivere “Punk” in un testo, un conto è intitolarci una canzone. Se poi decidi di chiamare così un intero album, è evidente che qualcosa bolla in pentola.
A ben guardare, Gazzelle ha fatto semplicemente quello che facevano i Punk nel ’76 o giù  di lì: provocare. Che è la stessa cosa che il suo corregionale (si dice così?) Calcutta fece tre anni fa, quando ebbe la pensata di chiamare “Mainstream” il suo nuovo lavoro (anche per lui il secondo, tra l’altro). Che era però una trovata un po’ guascona, perché in fondo il Mainstream un po’ lo schifano tutti (per lo meno coloro che si atteggiano ad intellettuali) mentre il Punk è ancora considerato una roba sacra.
Ma va da sé: gli Afterhours intitolarono “Padania” un loro disco di un po’ di anni fa, con un’operazione culturale alquanto interessante e furono bacchettati da certi esponenti dell’intellighenzia musicale sinistrorsa, che giudicarono poco opportuno quel gesto… direi che vale tutto.
Dove voglio arrivare? Non ne ho idea, mi sono perso. Mi pare tuttavia evidente che Flavio, con questo titolo, abbia già conseguito una prima vittoria: tutti parleranno di lui, pazienza se sarà solamente per insultarlo.
E allora il disco com’è? Riusciamo ad entrare nel merito dei contenuti o dobbiamo sempre e solo rimanere in superficie?
Ce la possiamo cavare piuttosto facilmente: “Punk” piacerà a tutti coloro che hanno amato “Superbattito”, non vedo nessun motivo per cui dovrebbe accadere il contrario. “Punk” è infatti il classico disco che un esordiente, dopo che il suo debutto è andato benissimo, dovrebbe cercare di non fare. Avete presente certe interviste dove l’artista di turno dice: “Sapevo che cercare di rifare il disco precedente sarebbe stato un errore”? Ecco, qui non è andata così: ha preso i suoi stilemi di scrittura, le sue soluzioni testuali e melodiche, tutti quegli aspetti di lui che così tanto erano piaciuti al pubblico e li ha utilizzati per scrivere altre nove canzoni, raggiungendo a stento la mezz’ora di musica.

Quindi niente di nuovo sotto il sole: Gazzelle si riconferma un buon autore, un interprete perfetto di tutti i cliché dell’It Pop, uno che sa giocare a meraviglia col male di vivere, col disagio esistenziale di chi non ha poi così grandi problemi da risolvere ma semplicemente non sa bene dove andare, al di fuori del suo presente fatto di istanti tra loro scollegati, che a volte parlano di godimento, altri di malinconia, altri di frustrazione.
“Abbiamo tutta la vita davanti. Sì, davanti a un bar”. Lo canta nel primo singolo, quello che ormai conosciamo bene. È ironico, senza dubbio, basta guardare il video e leggersi bene il testo. Eppure c’è un tale struggimento, dentro quel ritornello che vuole essere trascinante e ci riesce benissimo, che non si può non pensare a queste generazioni abbandonate a se stesse, in molti casi piene di sogni che sanno già morti in partenza.
Poi nello specifico, Gazzelle l’ho sempre trovato un fenomeno strano: quando uscì il suo disco, l’avevo etichettato come uno dei tanti epigoni di Calcutta che stavano nascendo come funghi un po’ dovunque nel tentativo (normalissimo, in questi casi) di sfruttare il successo di quel tipo di sonorità.  Lo avevo anche visto dal vivo e il livello approssimativo di quella performance mi aveva convinto che sarebbe sparito presto nel nulla. I fatti hanno dimostrato che mi sbagliavo: tra sold out continui nei principali club della penisola ed il salto nelle arene con i due concerti al Forum di Assago e al Palazzo dello Sport di Roma in programma per marzo, tutto dice che la domanda per vederlo dal vivo sia piuttosto alta. Oltretutto, i numeri dello streaming relativi ai nuovi singoli parlano di un nome che sta andando incontro ad una costante ascesa.


Che dire di tutto questo? Non saprei. “Superbattito” nel frattempo mi è capitato di sentirlo molto e sono arrivato alla conclusione che si tratti di un prodotto che coglie nel segno. Flavio è bravissimo a fare quel che fa, a scrivere canzoni dal taglio generazionale, con quell’aria indolente e quella produzione lo fi che per anni sono stati un po’ il marchio di fabbrica dell’Indie nostrano, ma ad infarcirle di una dose di paraculismo tale da risultare appetibili se non al primo ascolto, almeno al secondo o al terzo.
A questo giro nulla sembra cambiato: la produzione è sempre di Federico Nardelli ed è sempre volutamente grezza, un tono finto dimesso, con arrangiamenti scarni, quasi inesistenti, un uso dell’elettronica molto più che discreto ed un feeling generale da scappati di casa che suonano in una band. Personalmente, è una soluzione che apprezzo: iper produrre un disco del genere avrebbe voluto dire creare un “effetto Vasco” (non Brondi) che peraltro è già abbastanza presente di suo.
Questo è infatti un disco che vive soprattutto sui ritornelli, tutti costruiti per smuovere emozioni e per essere cantati da uno stadio intero (per ora saranno le arene ma un domani chissà): schema in tutto e per tutto identico al precedente, dunque, ma se possibile qui portato alle estreme conseguenze. È il giochino che era già venuto bene a Calcutta, con la differenza che “Evergreen” è un disco più disincantato, più menefreghista e caciarone. Questo, non me ne voglia il suo autore, suona depresso. È una sorta di canto dei vinti ma di quei vinti che sono fieri di esserlo, che rivendicano la propria mediocrità con un compiacimento neanche troppo velato. È un disco quasi del tutto appiattito sulle ballate, tra l’altro.

Succedeva anche nel precedente ma qui mi pare si noti di più. Sono solo tre infatti i brani più ritmati, se consideriamo “Sopra” un’ideale via di mezzo. “Sbatti”, “Non c’è niente” e “OMG”, non a caso sistemate in sequenza, rappresentano il momento più interessante del disco anche perché, quando accelera, la sua scrittura è sicuramente più efficace. Certo, siamo di fronte a canzoni che ricalcano molto da vicino il modello di “Sayonara” e “Meglio così” ma fanno battere il piede da subito e ti rimangono in testa bene. Forse la più interessante è “Non c’è niente”, che non ha un ritornello vero e proprio e punta tutto sul Beat e sul crescendo finale.
Degna di nota è in qualche modo anche la conclusiva “Coprimi le spalle”, che si apre con un fraseggio di chitarra in tono minore, per sfociare in un brano dall’atmosfera agrodolce, ancora una volta senza ritornello. Non imperdibile, ma se non altro il tentativo di fare qualcosa di diverso, almeno superficialmente.
Ci sarebbe da parlare dei testi ma non so se sia il caso. Al di là di rime al limite della denuncia penale (“Forse faremo un figlio all’Isola del Giglio”), che rimangono brutte anche se sono fatte con intento ironico, si tratta della solita accozzaglia di istantanee impressionistiche, non sempre inserite in una continuità narrativa, tra la vita quotidiana dopo il successo (“La mia faccia in copertina”, “Sapevo un po’ di tour”) e storie d’amore poco lineari, il tutto con un retrogusto amaro ed uno scetticismo che sono da sempre il suo marchio di fabbrica ma che dopo un po’ disturbano e con una “Sbatti” che suona come il manifesto definitivo di una generazione alla deriva.
Non è un brutto disco, “Punk”, ma sa di occasione sprecata; o forse, più semplicemente, non era possibile fare di meglio. Se bisogna per forza parlare di It Pop, credo che a questo punto basti e avanzi Calcutta…

Tracklist
01. Smpp
02. Punk
03. Sopra
04. Tutta la vita
05. Sbatti
06. Non c’è niente
07. OMG
08. Scintille
09. Coprimi le spalle