Ci sono album che ti cambiano la vita, album che ti entrano così prepotentemente dentro che ti accompagneranno per tutta la tua esistenza e che, anche quando penserai di essere andato oltre, saranno lì ad aspettarti pazientemente in un angolino della libreria, pronti a sbucare di nuovo fuori in un momento di nostalgia per il passato o di ilarità durante una cena tra amici…
Metti ad esempio dieci persone appassionate di musica che si incontrano in una pizzeria, si ride, si scherza, ci si prende in giro sui gusti musicali dell’uno o dell’altro e, all’improvviso, qualcuno pronuncia la fatidica domanda: qual è stato il primo Lp che hai acquistato?…di qui l’idea di creare Never Say Goodbye, una rubrica dedicata alle perle musicali del passato, perché per quanto ci si possa allontanare lungo la strada, non bisogna mai dimenticare da dove si viene.
Articolo di E. Joshin Galani
Sono appena rientrata dal cinema, ho visto Bohemian Rhapsody, di Bryan Singer e Dexter Fletcher, film curatissimo, nelle somiglianze, nella recitazione e nella ricostruzione perfetta del Live Aid del 1985.
È proprio questo evento che fa da “tenda del palcoscenico”, che apre e chiude il film.
Credo sia veramente difficile riportare per intero tutta la loro carriera, mancano molte cose, pochi riferimenti a Jazz album del 1978, protagonista del nostro “Never Say Good Bye” di oggi. Nel film si da spazio più alla festa di presentazione dell’album che alle canzoni in esso contente.
Jazz ha compiuto 40 anni il 10 di novembre ed è il settimo album dei Queen.
Non sono mai stata una fan dei Queen in toto, ma amo sicuramente le loro prime produzioni.
Scelgo questo disco perché questa pubblicazione chiude il mio interesse musicale per loro. Salvo veramente pochi brani nel repertorio successivo, anzi, in alcuni casi ritengo abbiano avuto una parabola a picco verso il basso, ad esempio considero Radio Ga Ga terribilmente irritante.
Jazz si apre con Mustapha, con quello stile arabo che mi ha sempre affascinato, una partenza distantissima da qualsiasi aspettativa, destabilizzante, imponente la struttura dei cori. Questa canzone è il rischiare in uno stile lontano anni luce delle contemporaneità, spingersi ai limiti del dirupo, le invocazioni ad Allah, lingue arabe, come tenere forte con una mano la fune della tradizione mediorientale e con l’altra quella del rock.
Fat Bottomed Girls è quella che mi piace meno, richiama quel r’n’r americano scontato, banale, di facile presa che proprio non ho mai amato. È come se con questo brano si scusassero di aver tirato troppo la corda prima, e riprendessero le redini proponendo una musica super digeribile.
Via le corde, le tensioni, le provocazioni, qui siamo sul classico, parte Jealousy la love song del disco, una ballata dolcissima e delicata. Crogiolamento da romanticoni, piano, scale vocali, cori, il sussurro di “how how how all my jealousy” ed è subito abbandono.
Questo disco non è fatto per rimanere troppo in stanze chiuse, se sei ancora intontito e accovacciato da Jealousy, ci pensa Bicycle Race a destarti, cantata come se con la bicicletta Freddie stesse pedalando su di un percorso sinuoso. Un testo semplice a servizio del ritmo, del botta e risposta, cambi di tempo, scomodando Peter Pan, Frankenstein e Superman con scampanellata a guarnire…
…If You Can’t Beat Them è la “canzone-equilibrio” dopo le precedenti. Scorre Let Me Entertain You prima di Dead On Time, pop rock per In Only Seven Days che chiude l’aspetto di stabilità di questa parte centrale dell’album.
Dreamers Ball stile musical anni ’50, testo che potrebbe essere stato suggerito dalle ambientazioni da ballo di fine anno.
Don’t Stop Me Now è sicuramente il brano più potente dell’album, che segue Leaving Home Ain’t Easy ed anticipa More Of That Jazz. Freddie alla voce fa cose strepitose in termini di velocità ed estensione. Siamo abituati alla sua magnificenza, Mister Fahrenheit pompa altissimo, ci sbalza su, con lui, nella salita supersonica , May e compagni sostengono in maniera impeccabile questo razzo diretto su Marte, con un crescendo che diventa tensione come stare sopra un geyser.
Di jazz inteso come stile musicale, non c’è veramente nulla in questo album; forse non è il più eccelso della loro produzione, ma ha episodi assolutamente spassosi, divertenti, già partendo dal titolo. Alcune scelte sono fuori dalle strade consone e contemporaneamente dentro il rock, sia classico che poderoso, il funky. Ci sono le furie, tappeti sonori articolati, salite vorticose e le culle. Forse non sarà la prima classe, ma un viaggio qui dentro, lo consiglio.
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