Articolo di Luca Franceschini.

Sono passati cinque anni da “Preso nel vortice”, che è stato l’ultimo disco in studio e che, diciamocelo francamente, non era un granché. In mezzo è arrivato un lungo tour durante il quale è stato celebrato “Siberia”, eseguito interamente all’inizio di ogni concerto, data dopo data e successivamente anche registrato daccapo, con l’aggiunta di interludi strumentali e brani inediti. Un’operazione che è senza dubbio servita a fare cassa ma che, dal punto di vista strettamente artistico, è risultata decisamente superflua.
Per tutti questi motivi mi sembra importante salutare il ritorno dei Diaframma alla contemporaneità, con un disco nuovo di zecca che, prima ancora di qualunque giudizio di valore, costituisce senza dubbio la prova che questo gruppo non ha intenzione di mettere la parola fine al proprio percorso artistico.

“L’abisso” è uscito a inizio dicembre per cui sembrerebbe piuttosto strano mettersi a scriverne quando siamo già a gennaio inoltrato, in fervente attesa dei primi titoli del 2019. Eppure, sarebbe sempre meglio lasciar passare un po’ di tempo prima di parlare di un nuovo lavoro, a maggior ragione se si tratta di una band importante come i Diaframma.
Nel mio caso, la ragione è un po’ più prosaica: ai primi ascolti, questo disco non mi aveva convinto. Siccome penso che le stroncature, spesso e volentieri, siano soprattutto un affare tra il recensore ed il proprio egocentrismo, ho pensato di prendermi una pausa e di vedere che cosa sarebbe successo a rimetterlo in rotazione un mese dopo o poco più.
“L’abisso” è un titolo evocativo, che parla del tempo che passa e di tutte quelle cose (belle? Brutte? Fate voi) che sono nascoste in profondità nel reale o nel nostro animo. È un titolo che ci fa ritrovare un Federico Fiumani particolarmente ispirato, magari non sempre così memorabile come in passato, ma ancora in grado di usare le parole per dipingere con pochi ed essenziali tratti una realtà che, attraverso la sua penna, appare in tutta la sua decadente prosaicità. Leggete i versi intrisi di ironica nevrosi de “Le auto di notte” o i frammenti di autobiografia allucinata de “I ragazzi stanno bene” (che sarà pure una strizzata d’occhio a “The Kids Are Alright” ma che è ben lontana nello spirito dall’originale degli Who), o ancora le evocative metafore de “L’impero del male” e “Figlio di Dio” e scoprirete un autore che ha ancora voglia di dire qualcosa, anche se un po’ di mestiere, dopo tanti anni, è pure comprensibile.
È una raccolta di canzoni che, almeno in linea generale, risulta più ispirata dei due dischi precedenti ma che non è riuscita del tutto a liberarsi da quello che, per quanto mi riguarda, è il difetto principale di questo gruppo nell’ultimo decennio, vale a dire un’eccessiva approssimazione in fase di produzione e soprattutto di arrangiamento.
Permettetemi di esprimere il mio umile parere e non ve la prendete: io penso che Fiumani avrebbe bisogno di affidarsi ad un produttore vero. A qualcuno, cioè, che valorizzi al meglio le sue intuizioni e gliene fornisca altre che a lui non sarebbero mai venute in mente. Il problema è che tutte e dieci le canzoni sono suonate con un piacevole ed energico feeling live (la band è sempre quella degli ultimi dischi, con l’unica aggiunta del batterista Vanni Breschi), hanno un bel tiro e complessivamente un bell’impatto sonoro ma sembrano poco rifinite, a tratte appena abbozzate, quasi come se il problema fosse unicamente quello di mettere insieme testi e linee vocali su di una base ritmica funzionante.


C’è anche qualche mancanza in fase di editing: per come si sviluppano, alcuni episodi durano troppo, col loro dilungarsi in parti strumentali che rischiano di appesantire l’insieme. Per non parlare poi di certe soluzioni particolari come i coretti su “L’impero del male” o sulla conclusiva “Luce del giorno” che per carità, se uno ce li vuole mettere non c’è problema ma consentitemi di dire che non siano proprio il massimo.
Nonostante questo, non si tratta di un brutto disco. Certo, il songwriting di Fiumani risulta a volte incline all’autocitazione, con qualche brano che sa di già sentito (“Così delicata”, “Il figlio di Dio”), soprattutto a livello di melodie vocali. “L’Abisso” contiene dei brani forti, a partire dall’iniziale “Leggerezza” (che cracchiude tutte le cose più belle dei Diaframma degli ultimi anni e che anche a livello di testo, pare essere un modo per tirare le fila di un’intera esistenza) o “L’impero del male” che è anche l’episodio più rock e trascinante del lavoro, immagino che dal vivo sarà bellissima. Molto intensa e vagamente notturna è “Ellis Island, 1901” mentre “Non posso separarmi da te” è una ballata romantica ammantata di cantautorato Sixties che nel contesto funziona perfettamente. Il resto è nella norma e, pur con qualche piccola caduta di stile (“Fica Power”, al netto di un testo anche divertente sul potere seducente di una donna, si perde un po’ via) risulta pienamente sufficiente, lontano dai Diaframma migliori ma sufficientemente buono da farci venire voglia di ascoltarlo dal vivo.
La verità è che di un gruppo così avremo sempre e comunque bisogno. Il capolavoro non se lo aspetta più nessuno ma ogni volta che tornano fra noi viene voglia di festeggiare. Ci vediamo in tour!

Tracklist
01. Leggerezza
02. Il figlio di Dio
03. L’impero del male
04. Cosi’ delicata
05. I ragazzi stanno bene
06. Ellis Island, 1901
07. Le auto di notte
08. Non posso separarmi da te
09. Fica power
10. Luce del giorno