Articolo di Simone Nicastro
Negli anni ho scritto articoli su molti argomenti ma mai sul Festival di Sanremo. Vuoi perché trovo totalmente sproporzionato quanto polverone sollevi ogni volta, vuoi perché alla fine il Festival se la cava bene anche senza che qualcuno (e io ancor meno) lo difenda con decisione. Però è sotto gli occhi di tutti che la società odierna si stia incancrenendo sempre di più sullo scontro e la faziosità come approccio strutturale alla vita. Tutti (o quasi) si premurano di affermare che sono della volontà di volersi capire vicendevolmente, della comprensione reciproca e di ricercare in fondo un punto in qualche modo positivo nella realtà. Poi invece velocemente scadono nell’arroganza, nella violenza (verbale si spera) e nell’incapacità di mettersi anche solo per un secondo nei panni degli altri. La vera verità “casualmente” è che in ogni contesto vale solo la propria opinione contro l’evidente e appurata menzogna che appartiene alla parte opposta.
Cosa c’entra tutto ciò con il Festival? Aprite i vostri social e osservate le parole e i giudizi vomitati senza ritegno su direttore artistico, presentatori, coreografie, ospiti e soprattutto artisti. Faccio anch’io per una volta il “sapientino” supportato però da qualche dato statistico letto nelle ultime rilevazioni sul tema: di queste centinaia di migliaia di italiani, quanti che commentano con presunta precisione, orecchio allenato, arguzia e capacità critica le canzoni del Festival dedicano alla musica nella loro quotidianità più di 10 minuti al giorno? Quanti comprano album, ascoltano nuove canzoni, si recano ai concerti, hanno una minima idea di cosa succede nel loro paese e nel mondo sull’argomento? Quanti hanno nella loro vita approfondito veramente storie ed espressioni artistiche sonore se non per uno sporadico biopic o un articoletto di Sorrisi&Canzoni? Chi dei grandi guru della critica (o chi dice di esserlo) nostrana ha veramente la tensione e l’umiltà al confronto, all’ascolto di altro, di lontano, di differente dalla propria comfort-zone o semplicemente gusto/abitudine? Semplice: un numero che ritenere misero è già fargli un complimento.
Il problema è che la musica non è più un argomento valoriale, costitutivo e artistico; è diventata conversazione popolare utile solo alla banalizzazione del pensiero soggettivo e l’esaltazione del sentimento ed dell’esperienza del singolo. “Avevo 15 anni quando ascoltai per la prima volta Dylan. Tutto cambiò e divenni parte della vera bellezza assoluta. Ora solo merda, che testi, che arrangiamenti, che voci e che messaggi inutili e mediocri” uno dei tantissimi esempi di una propria interiorità evocata come metro di giudizio oggettivo anche per gli esseri viventi per cui Dylan potrebbe essere il loro nonno (o più in generale non l’hanno mai ritenuto interessante). E lasciamo stare il tema dell’arte che supera il passare del tempo e diventa universale: stiamo discutendo di pop, rock, elettronica, cioè di produzioni artistiche che non hanno neanche un secolo di vita! Permettetemi ma per la consacrazione storica/oggettiva (sempre che sia possibile) aspetterei almeno altre due o tre generazioni; per ora un Dylan per me vale un Cave qualunque (anzi scherzo, per me Cave è immensamente superiore).
Ma torniamo al Festival di Sanremo: spettacolo vecchio, formula vecchia, specchio di un paese non reale e vecchio (qualcuno ha detto Afterhours?!), cantanti e canzoni che non sono ciò che gli italiani vogliono in realtà, anche loro già vecchi seppur giovani! I tentativi di inserire vere o presunte novità non fanno che acuire la sensazione di straniamento tra la “baracconata” festivaliera e gli “immaginifici ascolti” della gente comune prima e dopo Sanremo. Del resto vuoi mettere il consueto Nek contro le hit estive di Baby K, un Cristicchi melenso al posto della profondità dell’ultima coppia De Gregori/Elisa, una Giorgia super ospite con una stessa Giorgia in classifica con la cover di Jovanotti. Direi che risulta immediatamente evidente la distanza siderale tra i due mondi in questione, tra la musica del potere televisivo (politico e capitalistico) sanremese e quella che interessa, diverte ed emoziona senza compromessi (se non per il web, la radio, i social, il gruppo di amici/fratelli/siamosolonoi e ancora comunque la tv) chi non si piega al Festival. Poi puntuali come la morte ecco i commenti dei “sapienti”, di quelli che la discografia universale è finita con i Clash, i famigerati che la loro colonna sonora accompagnava una intera generazione e quella di adesso invece la sotterra ogni giorno: loro sono i peggiori, i cultori da setta, i seguaci dell’individualismo potenziato e, diciamolo almeno una volta, di tensione fascista. Chi non è dei loro è il nulla, non merita considerazione, non può avvalersi di criteri e valutazioni alternative; chi non è dei loro non ha ragione di esistere e deve essere messo all’indice dell’indecenza. Si arrampicano in disquisizioni tecniche, inventano letture grammaticali e comparative, insultano come se avessero il nulla osta divino, replicano in continuazione e allo sfinimento la loro superiorità storica, elettiva e intellettiva. La libertà finisce dove inizia la tua, ma la tua è in errore quindi ti insulto che faccio prima. Merda, merda, merda. A te piace quello e a me piace questo, peccato che il tuo “quello” non è musica. Vuoi mettere il mio blues con il tuo “tunz tunz” da pulsantiera.
Il Festival di Sanremo riesce in 5 giorni a compendiare e rilanciare in maniera esponenziale tutto quanto ho descritto sopra: nessuno alla fine vuol essere escluso e tutti dicono la loro, posizionandosi o di qua o di là. Probabilmente la frequentazione (o la contrarietà) ai vari Talent durante l’anno ha acuito ulteriormente lo svacco-commento “adesso ci penso io a rimettere le cose al loro posto che quando c’era Orietta Berti (o Tenco o Max Pezzali o chi cavolo volete voi) certe cose non succedevano”.
Io personalmente ritengo questa manifestazione come qualsiasi altra manifestazione esistente al mondo in cui si ha l’opportunità di ascoltare musica: può essere di qualità o non esserla, di genere commerciale o più ricercato, ben realizzata o semplicistica, di moda o alternativa. Se c’è una cosa che mi ha fatto innamorare della musica è che questa non è confinata a uomini e luoghi riconosciuti/precostituiti; a differenza del cinema, per fare un esempio, la musica non ha bisogno di tecnologia particolare o sale adibite, una sola voce può intonare la melodia più magnifica ascoltabile. Le (sovra)strutture esistono per la differenziazione della creazione ma non sono mai l’anima della musica stessa. Anzi in qualche misteriosa maniera le canzoni vivono solo quando se ne condivide l’essenza, quando quello che hanno da dire deve per forza essere ascoltato e interiorizzato per essere veramente compiuto. E quale modo migliore esiste di una manifestazione (qualsiasi manifestazione) che permette alla musica di esserci e di farsi ascoltare da milioni di persone. Il Festival di Sanremo c’è e in una qualche maniera continua a fare quello che ha sempre fatto: presentare canzoni e intrattenere la gente. Non lo fa come vorremmo o come spereremmo, non riesce a superare certi limiti di contesto e di politica spiccia, non rappresenta né il meglio né la totalità della produzione musicale italiana, non rende merito nella giusta misura alla meraviglia e alla grandezza della storia autorale nazionale passata e presente. Vero. Vi chiedo però chi lo fa? E voi siete così certi di essere all’altezza di quanto l’arte musicale meriterebbe di essere diffusa, condivisa e raccontata. Io cerco nel mio piccolo di farlo da 30 anni e non mi sembra di essere neanche minimamente vicino a come vorrei. Anche nei confronti di un Festival come quello di Sanremo. Parappappappaparà.
Fotografie di Enrico Di Giacomo – Stampalibera.it
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