Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Claudia Losini
Il TOdays festival ha vinto la scommessa. Già punto di riferimento importante per i live estivi nel nostro paese, a questo giro ha voluto tentare il grande salto, presentando in tre giorni una line up stellare, composta da alcuni dei migliori nomi del panorama internazionale. Quasi nessun nome nuovo, si è preferito puntare su act consolidati, la maggior parte con almeno quindici anni di carriera alle spalle, tutti passati dal nostro paese, anche più di una volta in tempi recenti. Quindi niente esclusive ma un gruppo di artisti solido e di qualità altissima, che non ha nulla da invidiare ai più blasonati festival europei.
Questo è senza dubbio il principale punto positivo di questa edizione. Il secondo, come sempre, è la location: la Torino periferica, quella delle ex aree industriali, quella meno conosciuta ma ugualmente ricca di fascino, il tentativo di far conoscere una zona della città normalmente mai battuta e di ridarle una vocazione socio-culturale tutta sua.

Vincente anche il periodo: il terzo weekend di agosto, quando le ferie non sono ancora finite, in città c’è poca gente, ci si muove con facilità e si parcheggia ovunque. In questo modo, i tempi morti tra mattina e pomeriggio si possono dedicare a girare per il centro, senza troppi problemi logistici.
Quello che ancora non funziona perfettamente e che quest’anno purtroppo non è migliorato, è l’aspetto organizzativo, soprattutto per quanto riguarda i servizi. Solo due posti dove mangiare, due postazioni per la birra, il tutto a prezzi decisamente alti (la qualità, almeno per quanto riguarda il chiosco degli hamburger, è invece fuori discussione), con il divieto assoluto di introdurre cibo e bevande all’interno, che è suonato davvero come una beffa. Da questo punto di vista, mi addolora dirlo, ma vince il Firenze Rocks: almeno lì, il criminale sistema dei Token viene stemperato dal fatto che l’organizzazione permette di portarsi da casa quello che si vuole.
Nota di merito invece per il distributore di acqua gratis (in eventi del genere dovrebbe essere la prassi ovunque) e per l’ormai consolidato sistema del bicchiere di plastica da utilizzare per tutto l’arco del festival. Al di là del fatto che a mio parere l’euro di cauzione versato sarebbe stato giusto ridarlo, in caso di restituzione, non può non far piacere (come del resto già riscontrato al Primavera Sound di quest’anno) la totale assenza di rifiuti per terra. Al di là degli aspetti prepotentemente ideologici di un certo discorso ambientalista, è innegabile che certe misure facciano bene e che siano ormai imprescindibili.
E quindi eccoci qui. Quello che segue è il resoconto del primo giorno, con un breve schizzo per ciascuno degli artisti che ho visto suonare. Come sempre, non ho il dono della sintesi quindi sarà una roba lunga. Non siete però obbligati a leggere tutto: il nome di ogni act è in grassetto, quindi potete direttamente saltare a quello che vi interessa…

La prima giornata si apre con qualche piccolo problema tecnico, coi cancelli che vengono aperti solo a ridosso dell’inizio programmato per le esibizioni, provocando giusto qualche brivido, nel timore di non fare in tempo ad arrivare sotto il palco.
Alla fine filerà tutto liscio, le tanto temute operazioni di controllo si riveleranno decisamente veloci e riusciamo a prendere posto comodamente, aiutati anche dal fatto che gli orari delle esibizioni verranno tutti fatti slittare di un quarto d’ora circa.
Bob Mould si presenta, più o meno a sorpresa (sono sicuro che in qualche modo era stato annunciato ma io me lo sono perso) da solo, in compagnia della sua chitarra. Addirittura fa il suo ingresso sul palco con lo strumento ancora chiuso nella custodia, come se fosse un roadie qualsiasi.
In Italia non ci veniva da tre anni e di gente per lui ce n’era parecchia, diciamo che tanto del pubblico più attempato, diciamo così, che si è assiepato nelle prime file era lì per lui.
Fa indubbiamente strano vederlo senza una band, lui che ha sempre fatto della potenza sonora uno dei suoi più importanti marchi di fabbrica. Coi mezzi che ha, ci prova comunque: nessun lavoro di riarrangiamento delle canzoni, che vengono proposte così, come se ci fossero dietro dei musicisti a supportarlo. Il risultato è alterno: i brani sono sempre quelli e non perdono il loro fascino, la resa è ovviamente più raffazzonata e la grandezza epica di certi episodi viene inevitabilmente perduta.
A conti fatti, comunque, è un live discreto, che si apre coi pezzi degli Hüsker Dü (un trittico composto da “Flip your Wig”, “Never Talking to You Again” e “I Apologize”) e si chiude esattamente allo stesso modo (“Hardly Getting Over It”, “Something I Learned Today”, “Chartered Trips”); in mezzo, un paio di brani dei Sugar e, ovviamente, il suo repertorio solista, dove non mancano cose splendide come “The Descent” e “Makes No Sense At All” e qualche estratto dall’ultimo, riuscitissimo, “Sunshine Rock”, compresa una title track un po’ pasticciata ma lo stesso efficace.
Un buon modo per aprire il TOdays anche se non ci leviamo l’impressione che la grandezza del personaggio abbia vinto sull’effettiva qualità della performance. Speriamo di rifarci vedendolo col gruppo al completo.

I Deerhunter, dopo l’uscita di “Why Hasn’t Everything Already Disappeared?” non ero ancora riuscito a vederli e li attendevo dunque con una certa curiosità. Nulla di nuovo sotto il sole, comunque: hanno fatto esattamente lo show che ci si aspettava da loro, quello che li ho visto fare altre volte e lo hanno fatto come sempre benissimo. Bradford Cox è un personaggio dal carisma tutto suo e lo si vede bene da come affronta il concerto, molto libero e a tratti leggermente ironico nel modo di porsi. Lui e l’altro chitarrista Lockett Pundt sono i due perni attorno a cui ruota un set immaginifico e molto coinvolgente, che accentua la vena psichedelica del quintetto, dilatando notevolmente le parti strumentali che ora esplodono in distorsioni sature, ora si fanno più leggere ed ipnotiche. Si parte come (quasi) sempre con “Cover Me (Slowly)” e si continua con un bel mix di vecchio e nuovo, dove i brani dell’ultimo album (“Death in Midsummer”, “No One’s Sleeping”, “Plains” e “Futurism”) si incastrano alla perfezione in una setlist dove sono sempre le varie “Helicopter”, “Desire Lines” e “Revival” ad essere inevitabilmente protagoniste. Il tutto con una resa magnifica, da parte di un gruppo molto affiatato, con un Moses Archuleta maiscuolo dietro alla pelli.
Ripeto, niente di nuovo ma è bellissimo ritrovarli dopo un anno a questi livelli.

Per gli Spiritualized c’è da fare un discorso diverso: l’anno scorso al Primavera Sound suonarono probabilmente uno dei concerti più belli a cui abbia mai assistito in vita e sapevo già che ripetersi non sarebbe stato facile. Per di più c’era l’inghippo del tempo a disposizione: vederli suonare per un’ora o poco più, per una band della loro caratura, sarebbe stato un delitto o quasi.
Alla fine va esattamente così: quando parte “Oh! Happy Day”, la versione del popolare Spiritual che da sempre chiude i loro concerti, è inevitabile un moto di disappunto. Non è possibile fare a meno della bellezza e quando parte quell’ultimo brano, avevamo di fatto appena iniziato a goderne.
Jason Pierce, come sempre defilato, seduto al lato del palco con la sua chitarra ed un leggio davanti a sé, è il direttore di un ensemble che comprende altri cinque musicisti e tre coriste. Difficile dire quello che è stato il loro concerto, una sorta di Gospel in versione rock, dove tre, quattro accordi si ripetono incessantemente, affidando tutta la magia della canzone al modo in cui le melodie, sempre splendide, vengono fatte crescere o diminuire, in un continuo cambio di dinamiche, dove la componente corale ha un ruolo di primo piano. Ed anche il modo con cui alternano ballate celestiali e commoventi (“Soul on Fire”, “A Perfect Miracle”) a cavalcate più ruvide e venate di Blues (“Come Together”, “She Kissed Me (It Felt Like a Hit)”).
Il tutto con un lavoro di chitarra magnifico da parte di John Coxon e Doggen Foster e una sezione ritmica col basso martellante di Thomas Wayne a dettare i tempi.
Un’immersione totale, una band in grado di evocare sensazioni e di far parlare le proprie canzoni come pochissime altre. Ripeto: è durato troppo poco. Ma è anche vero che li ascolterei per quattro ore di fila quindi forse è un commento inutile.

La serata allo Spazio211 si chiude coi Ride, chiamati in corsa a sostituire i defezionari Beirut, che si sono trovati per la seconda volta ad annullare un tour (auguriamo ovviamente pronta guarigione a Zac Condon). La band di Andy Bell e Mark Gardener ha pubblicato il nuovo “This Is Not a Safe Place” da appena una settimana e, fatta eccezione per qualche instore in Inghilterra, questa è la primissima data del nuovo tour.
Il concerto è bellissimo, con un gruppo totalmente in palla, forse penalizzato un po’ dai volumi, leggermente più bassi rispetto a quelli di cui hanno goduto gli act precedenti.
Ovviamente, quando si parla di un gruppo con la loro storia, ci si aspetta di sentire i pezzi vecchi e infatti il pubblico, attento ma anche piuttosto spento durante tutta la giornata, si sveglia improvvisamente quando partono le varie “Seagull”, “Taste”, “Chrome Waves” e soprattutto nel finale, dove vengono infilate una dopo l’altra “Drive Blind”, “Dreams Burn Down”, “Leave It All Behind” e “Chelsea Girl”. Inevitabile, per un gruppo che ha dalla sua due dischi importantissimi in ambito Shoegaze e che è stato anche l’unico di quel periodo a godere di un vero e proprio successo commerciale, per certi versi anticipando il ciclone Brit Pop (che sarà poi quello che li spazzerà via). Aggiungiamo che è bellissimo ritrovarli in perfetta forma e che quelle canzoni di quasi trent’anni fa vengono suonate con la potenza e l’ispirazione del tempo.
Detto questo, non bisogna dimenticarsi del fatto che i Ride, dalla loro iniziale reunion del 2015, hanno registrato due dischi e hanno tutta l’intenzione di presentarsi come un gruppo che vive e si evolve, non come un semplice pezzo da museo. E se “Weather Diaries” era stato un po’ sotto tono (anche se questa sera suonano “Charm Assault” e “Lannoy Point”, che sono due episodi davvero riusciti) il nuovo disco è invece molto ispirato, con richiami al passato illustre ma anche con diversi tentativi di portare avanti un discorso musicale diverso. Nella setlist di Torino ci sono quattro pezzi, tutti molto eterogenei, dalle suggestioni ottantiane di “Future Love” (con un riff che ricorda molto Wild Nothing), ai riff oscuri e massicci di “Kill Switch” (una delle cose migliori da loro scritte in questa nuova fase), al sound moderno e vagamente dance di “Repetition”, fino alla tradizionale “Jump Jet”, con cui hanno aperto il concerto.
Ho sentito commenti contrastanti, non a tutti è piaciuto ma non so cosa ci si potrebbe aspettare di più da loro. Al di là dei gusti personali, questo mi sembra un gruppo destinato a giocare una parte tutta sua, anche se di sicuro meno importante prima, nel panorama contemporaneo.







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