L I V E – R E P O R T
Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Marco Olivotto
È probabilmente superfluo raccontare l’epopea dei Disciplinatha e spiegare perché abbiano rappresentato un caso unico nel panorama musicale italiano. Il loro ritorno sulle scene, a fine 2017, ha rappresentato un fulmine a ciel sereno ma anche un’occasione preziosa per poter recuperare la storia di un gruppo che da troppo tempo sopravviveva ormai solo nella memoria storica degli appassionati.
Ripresentatisi col nuovo monicker Dish-Is-Nein (a causa del fatto che i diritti sul nome sono ancora detenuti dal batterista originario Daniele Albertazzi) e accasatisi presso la storica Contempo Records, il gruppo, il cui nucleo fondante è ancora costituito da Cristiano Santini e Dario Parisini, a cui si è aggiunta solo di recente la bassista Roberta Vicinelli, che ha fatto ritorno all’ovile dopo parecchi anni, ha realizzato un Ep straordinariamente autorevole, dove le suggestioni Industrial-Post Punk degli esordi sono diventate ancora più spigolose, corredate da una veste sonora al passo coi tempi, e dove il lato provocatorio e disturbante dell’immaginario e dei testi non è per nulla venuto meno.
Un lavoro folgorante, che ci fa ben sperare per un’esistenza in pianta stabile nel futuro. Al momento c’è un trentennale da celebrare (in teoria il giro di boa è stato compiuto nel 2018 ma le iniziative non sono finite), con la ristampa in vinile del cofanetto “Tesori della patria”, che era uscito in cd nel 2012, il ponderoso volume “Tu meriti il posto che occupi” e, dulcis in fundo, una serie di date live.
Quella al Circolo Ohibò è poi particolarmente importante: era da 23 anni che il gruppo non si esibiva a Milano e l’attesa è comprensibilmente tanta. Corsi e ricorsi della storia, a rendere la circostanza ancora più particolare, la stessa sera in città ci sono anche i Massimo Volume, anche loro nome storico della scena bolognese, gruppo legato in qualche modo ai Disciplinatha, visto che Dario Parisini suonò per un certo periodo con loro.
E questa sera, in qualche modo anch’io ho dovuto scegliere. A Clementi e soci, che sono per me una delle band del cuore, per una volta ho preferito un act che non avevo mai visto dal vivo e che, date le circostanze, andava colto immediatamente, dato che nessuno può sapere per quanto tempo ancora rimarranno sulle scene.
Il locale è pieno, ottima risposta da parte soprattutto dei vecchi fan e di chi li ha recuperati ad inizio millennio, quando erano già un gruppo del passato: ovviamente era impossibile aspettarsi qualcosa di diverso ma è ugualmente bello che ci sia ancora così tanto affetto verso di loro.
Alle 22.30 spaccate dai diffusori escono le note di “Bandiera nera”, canto della tradizione alpina, assolutamente funzionale ad un immaginario che ha sempre utilizzato la componente militaresca, decontestualizzandola a scopo di provocazione. L’ingresso sul palco dei quattro (assieme al trio Santini-Parisini-Vicinelli c’è anche il batterista Marco Bolognini) dà il via a “L’ultima notte”, che rielabora ancora una volta la tradizione alpina e che inaugura un trittico fatto da canzoni dell’ultimo Ep, che prosegue con “Macht Frei” e “Toxin”. L’impatto è notevole: i suoni sono secchi e potenti, gli strumenti ben definiti, l’atmosfera marziale e cupa al tempo stesso. C’è un uso abbondante dell’elettronica e delle basi preregistrate (questo forse l’unico difetto, a volerlo cercare) ma l’insieme è assolutamente credibile e l’affiatamento dei quattro contribuisce alla potenza del concerto. Alle loro spalle, sullo schermo, avviene quello per cui i nostri sono sempre stati famosi: una serie di immagini e filmati che costituiscono una feroce fustigazione della società contemporanea, con la sua mercificazione totalitaria e lo svuotamento totale delle dimensioni esistenziali dell’individuo.
Si tratta di un qualcosa che avevano già espresso all’epoca, quando avevano deciso, loro, abitanti nella città “rossa” per eccellenza, di utilizzare un’estetica esplicitamente ispirata all’estrema destra. Ma sempre, in un qualche modo misterioso, essendo in grado di comprendere ed esplicitare le contraddizioni e le ipocrisie di chi condanna e allo stesso tempo, senza accorgersene, esprime la stessa ideologia con forme diverse. Lo aveva fatto, in modo più sottile, Einrich Böll nel suo “Opinioni di un clown”, lo ha fatto in epoca più recente Jonathan Littell nel suo romanzo d’esordio “Le benevole” (che infatti, guarda caso, aveva ricevuto attacchi feroci da una certa critica perbenista) ma a ben guardare, non sono forse gli stessi concetti che, in contesti diversi e con modalità differenti, portavano avanti intellettuali come Pier Paolo Pasolini e Hannah Arendt? Nel momento in cui, nell’artwork del loro Ep d’esordio, Santini e soci rappresentavano un soldato della Werhmacht con l’aquilotto di Armani al posto del classico simbolo nazista, non ci stavano forse invitando a guardare qualcosa che nessuno ha mai avuto davvero il coraggio di vedere?
E andando avanti nel concerto, ci si rende conto dell’attualità dei vecchi brani, soprattutto di “Crisi di valori”, scritta all’indomani del crollo del muro, quando ancora tutti auspicavano un’era di trionfo per la libertà e la democrazia. Oggi, nel momento in cui tutte le promesse irenistiche da “fine della storia” si sono rivelate fasulle e da più parti si leggono tesi che seguono questa linea (penso ad esempio all’ottimo libro di Antonio Polito uscito di recente), appare interessante notare come loro ci fossero già arrivati trent’anni prima. E allora ecco che diventa interessante vedere come l’hanno riletta dal vivo, con una componente elettronica più marcata, un suono leggermente più asciutto ed il corredo di immagini disturbanti come una bandiera dell’Unione Europea dove, al centro del cerchio di stelle, campeggia indisturbata una svastica. Che poi non è nulla, rispetto a una “Nazioni” dove, in mezzo a campionamenti dell’Inno alla gioia, scorrono violentissime le immagini dei massacri del Donbass, giusto per mettere in chiaro i cortocircuiti di questa Europa unita.
Nel corso della serata il gruppo ama anche sfoggiare il proprio armamentario Hardcore e Metal, che era presente soprattutto agli esordi, con esecuzioni pesanti e violentissime di “Leopoli” e “Milizia”, ma sa anche stupire, con una rilettura angosciante e disturbata del classico dei Kraftwerk “The Man Machine”, anche questa attuale più che mai a distanza di decenni. L’argomento cover è sempre stato loro a cuore, per cui non ci meravigliamo quando vengono proposte anche le due che avevano inciso all’epoca: “Up Patriots To Arms” di Battiato, con un testo opportunamente aggiornato all’era dei Social, e “New Dawn Fades” dei Joy Division (che assieme all’ipnotica “Mi addormento”, costituisce l’unico estratto da quel “Primigenia” che nel 1996 ne aveva interrotto il percorso discografico). Entrambi i brani, opportunamente personalizzati, costituiscono un buon esempio di come suonare canzoni di altri possa rappresentare anche e soprattutto una riflessione sulla propria identità, se viene fatto con la dovuta consapevolezza.
Splendida anche “Eva”, probabilmente il migliore dei brani dell’ultimo Ep, mentre il concerto si conclude, con messaggio eloquente, sulle note di “Tu meriti il posto che occupi”, originariamente un brano inedito incluso nella raccolta “Foiba”. Quale sia il posto che i rinati Disciplinatha/Dish Is Nein andranno ad occupare nei prossimi anni, non è dato saperlo. Sicuramente, oggi come allora (chi c’era ai tempi potrà confermare) il discorso è lo stesso: il gruppo bolognese non c’entra nulla con quanto va di moda oggi, non ha nessun requisito estetico-musicale che possa risultare appetibile e comprensibile all’ascoltatore medio che si muove onnivoro tra YouTube e Spotify. E consentitemi di dire che, ora più che mai, di loro abbiamo un enorme bisogno.
Photo © Marco Olivotto
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