R E C E N S I O N E
Recensione di Arianna Mancini
È un amore rivoluzionario quello di cui canta Ani, a quattro anni di silenzio da Binary.
Un tale messaggio non ci stupisce ed è un’ulteriore conferma della sua coerenza e crescita. La sua, una storia sui generis che ne fanno un’icona. Una song writer sopra le righe che si è sempre contraddistinta oltre che per il talento, per il coraggio, l’audacia e la fierezza del suo spirito libero. Classe 1970, ventuno album studio, a solo diciannove anni ha pubblicato il suo primo album Ani DiFranco fondando la Righteous Babe Records, propria casa discografica per non soggiacere ai dettami delle major. Da allora non si è mai fermata seminando perle sino a giungere agli albori del nuovo anno con il suo amore rivoluzionario.
Il titolo dell’album trae ispirazione dal libro See No Stranger – A Memoir and Manifesto of Revolutionary Love, scritto da Valerie Kaur avvocatessa e attivista americana di origine sikh. Tale opera non poteva che trovare terreno fertile in Ani che si è sempre impegnata attivamente in cause sociali, ambientali e politiche facendosi portavoce delle minoranze sia nelle questioni razziali che di parità di genere.
Il nuovo e maturo lavoro di Ani è uscito il 29 gennaio, anche se era intenzione dell’artista pubblicarlo prima delle elezioni americane per sensibilizzare gli animi con il forte e preponderante messaggio di cui si fa portavoce. La mancanza di sentire empatico, di connessione, comunicazione fra gli esseri umani e conseguentemente di democrazia. Una dimensione in cui sfera interiore e politico-sociale si legano indissolubilmente.
Le undici tracce che compongono l’album autoprodotto, sono state concepite on the road durante il suo ultimo tour sulla West Coast a febbraio dello scorso anno, prima che l’indesiderato ospite dilagasse a livello globale, per essere poi registrate in due giornate di intensa full-immersion all’Overdub Lane a Durham dal suo fidato Brad Cook, un produttore e polistrumentista presente al fianco di Ani anche nella realizzazione di Binary.
Nel tessere la tela sonora del disco accompagnano Ani oltre che Terence Higgins (alle percussioni) e Todd Sickafoose (al basso) suoi collaboratori storici; altri musicisti con cui non aveva mai collaborato come Brevan Hampden alle percussioni, il Delgani String Quartet e Roosevelt Collier, Matt Douglas ai fiati e al flauto, Phil Cook alle tastiere e Yan Westerlund alla batteria.
Quando si esplora un album, nessun dettaglio va lasciato al caso. Ogni elemento della sua struttura è una parte integrante del tutto, come la sua cover, ad esempio. In questo caso la copertina dell’album, è una fotografia di Susan Alzner, che ritrae un magnificente cielo notturno costellato di astri. Come racconta Ani stessa: “… quando stavo registrando questo disco, Susan mi ha mandato le foto del cielo mentre era fuori a camminare, e questo mi ha ispirato più profondamente. Quando le persone ascoltano questo disco, voglio che provino la stessa sensazione che ho percepito dalle immagini del cielo di Susan, quella sensazione di prendersi un minuto per rendersi conto che la luce risplende intorno a noi e attraverso di noi. Tipo, possiamo farlo, dobbiamo solo restare aperti. Dobbiamo guardare in alto…”
Non male gli ingredienti con cui si presenta il nuovo lavoro di Ani. Ci parla di un amore rivoluzionario, di luce, del restare aperti, di guardare in alto. Già sembra di intravvedere un intimismo filosofico ma consapevole e concreto, e con lei non c’è da stupirsi, è solo un’ulteriore conferma della strada percorsa.
L’evidenza giunge con la title track che apre il disco. Dal punto di vista strumentale è una creazione avvolgente, morbida e illuminata da bagliori romantici. Grintosa ed anarchica per i contenuti che veicola. È una spinta a risvegliare in noi la compassione, l’empatia ed il perdono; emozioni radicali per elaborare rabbia, dolore e desiderio di rivalsa. Parla di un amore che nasce da una ferita e così facendo getta le basi per una guarigione profonda superando l’odio, che sarebbe stata altrimenti l’ovvia ed immediata reazione.
In Chloroform l’atmosfera sonora creata dalle prime due canzoni sfuma e si fa più avvincente. Il quartetto d’archi apre la strada giocando fra ritmi sincopati e variazioni funamboliche di tonalità, il tutto su un tappeto elettronico. Sound ideale per dare voce alle disfunzioni interiori che inchiodandoci in un torpore febbrile ci rendono incapaci di reagire ai fantasmi interiori individuali o collettivi.
Ulteriore cambio di scena in Do or Die. Il sinuoso ritmo latino in stile bossa nova guidato dalle congas e arricchito della melodia del flauto ci sprona ad agire se si vogliono apportare cambiamenti.
Con Station Identification si vira in armonie free jazz più concettuali, gli strumenti sembrano cercarsi l’uno con l’altro, prima d’incontrarsi nell’unica strofa cantata in loop “…io ho un sogno, tu hai un sogno perché combattiamo l’uno con l’altro, dovremmo supportarci vicendevolmente”
Shrinking Violet e Metropolis incarnano il climax. Tutto vibra di pathos. Due ballate intense che entrano nelle cellule. Shrinking Violet ti prende per mano guidandoti sulle note di un blues evocato da una pungente chitarra slide ed il rullante spazzolato, si canta di una relazione violenta e della forza redentrice della vittima per poi passare lo scettro a Metropolis in cui si fa strada una pace contemplativa “…perché c’è un posto chiamato infinito…”.
È ormai giunto il tempo del commiato e prima dell’ultima traccia la strumentale Confluence introduce i saluti. Atmosfera soffusa. Basso, tom e triangolo si sintonizzano con il ritmo cardiaco per poi amalgamarsi nelle note acute di un piano che viene rapito dalla seduzione dei fiati, flauto e sax, che incorniciano il tutto.
Crocus nella sua scia di chitarre, archi e tastiere che volteggiano ci ricorda che possiamo farcela “…sembra che forse siamo riusciti a superare qualcosa di selvaggio” allora “…va tutto bene se tu apri il canale fra te e me e tutte quelle fastidiose domande si risponderanno da sole…”.
Un disco caldo, corposo che fluisce senza ostacoli e che ti assorbe nell’ascolto, ma non per questo semplice da suonare. L’architettura melodica si muove fra stili soul, jazz, funk e blues e ha il pregio di proporre testi impegnativi e polemici, che sfidano le nozioni di responsabilità personale e collettiva, celati dietro melodie vellutate. Chissà se così facendo il suo messaggio possa arrivare meglio a tutti.
Non è stata un’impresa facile cercare di descrivere Ani ed il suo Amore Rivoluzionario. Ogni ulteriore parola non renderebbe il giusto merito ad entrambi. Lei è una fuori classe, va oltre ogni schema e con tali creature, non rimane che abbandonarsi all’ascolto e poi il cuore farà il resto.
Tracklist:
01. Revolutionary Love
02. Bad Dream
03. Chloroform
04. Contagious
05. Do Or Die
06. Station Identification
07. Shrinking Violet
08. Metropolis
09. Simultaneously
10. Confluence
11. Crocus
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