I N T E R V I S T A
Articolo di James Cook e Lucia Dallabona
La scatola nera è notoriamente un apparato progettato per resistere alle condizioni che si possono creare a causa di in un incidente grave; preserva le registrazioni permettendoci così di entrare in contatto con le testimonianze del passato.
Scatola Nera è anche il nome di un progetto originale che nasce dalla collaborazione e dall’amicizia decennale tra Giacomo Carlone, produttore milanese, e il musicista e autore Luca Barbaglia. Grazie all’incontro con il pianista e saxofonista Gaetano Pappalardo e il chitarrista Simone Sigurani, è iniziato un lungo viaggio di arrangiamento, registrazione e produzione che ha dato vita ad una serie di canzoni.
Le atmosfere di Scatola Nera sono legate ad un passato non ben definito, che porta con sé i segni del tempo, i suoni dei graffi e della polvere. È una memoria che cerca di rimettere insieme i ricordi, così come il tentativo di riappropriarsi di un vissuto lontano, attraverso frammenti letterari e musicali.
Oggi vi presentiamo in anteprima il primo singolo, Terra senza pioggia. Approfittando dell’occasione, abbiamo contattato Luca Barbaglia per fargli alcune domande in merito a questa interessante proposta…
Nel comunicato stampa di lancio, parli della vostra musica come di “archeologia musicale ed emotiva”. Ci racconti com’è nata l’idea? Ti immaginiamo a casa mentre ascolti vecchi Lp graffiati e crepitanti di Cab Calloway, Scott Joplin, l’orchestra di Russ Morgan…
Immaginate bene! Anche Cole Porter e Kurt Weill hanno crepitato tanto a casa mia. Devo dire che è stato più un istinto che un’idea. Per vicissitudini personali, Scatola Nera ha avuto una genesi molto lunga: prima delle sessioni definitive, Giacomo Carlone ed io abbiamo registrato l’album completo tre volte tra Milano (Supermoon Studio) e Londra (Abbey Road Institute). Quando siamo arrivati alle registrazioni ufficiali con la formazione definitiva, avevamo tra le mani una serie di demo, prove in studio, frammenti di arrangiamento. Il materiale era tantissimo: riaffiorava da vecchi hard-disk, da piccoli registratori, da pagine e pagine di variazioni dei testi stipate nei cassetti. Abbiamo dovuto scavare come si fa in un sito archeologico, per riportare le canzoni alla luce e per rientrare in contatto con quelle emozioni. Penso che sia stato questo processo a indurci a guardare indietro, anche musicalmente, verso generi musicali ormai scomparsi.
Il vostro suono è molto originale, può far pensare a Caretaker, Penguin Cafè Orchesta, progetti del genere… abbinato al testo in italiano produce però un effetto molto particolare, elegante, raffinato, ma decisamente lontano dalle proposte che vanno per la maggiore ora. Come siete arrivati ad una scelta di questo tipo, è stata il risultato di un lavoro in team?
Abbiamo lavorato cercando di fare qualcosa che ci sembrasse bello, non preoccupandoci molto di ciò che ci succedeva intorno. Per quanto riguarda la scelta, è stato un concorso di colpe, più che un “lavoro di team”. Ci sono piombati dal cielo Gaetano (Pappalardo), un jazzista che sembra emerso dal fumo di un concerto hard bop degli anni ‘50, e Simone (Sigurani) che è invece un chitarrista dall’anima pop e molto moderna. Abbiamo costruito insieme queste atmosfere musicali, seguendo i suggerimenti e le tracce che ci avevano lasciato queste canzoni “ritrovate”. I Penguin Cafè Orchestra ci hanno sicuramente aiutato molto a mischiare i generi, a stratificare gli arrangiamenti sulle canzoni.
L’abbinamento del piano preparato con il sax produce un effetto davvero gradevole, ci fa pensare ad un uomo anziano che racconta con affetto e un po’ di malinconia i suoi momenti gloriosi, anche se non credo tu sia così avanti negli anni… Oltre ad evocare sensazioni rétro, cosa intendi trasmetterci attraverso i quattro quadretti in cui è suddivisa “Terra senza pioggia”? Ci incuriosisce anche conoscere qualche dettaglio circa il processo di “invecchiamento” subìto dal pezzo in fase di mixaggio…
Ho trent’anni (sono giovane o vecchio?). Penso che questa sensazione sia data dal fatto che io non riesco a scrivere di ciò che mi succede, ma solo di quello che mi è successo: tra me e le cose c’è la memoria che distorce, idealizza, rimuove, seleziona e ricompone. Mi affascina dare conto di questo processo. I quattro quadretti di “Terra senza pioggia” sono quattro ricordi, quattro immagini diverse che sono sopravvissute alla mia memoria e che hanno un qualcosa in comune. Se sapessi dirvi che cos’è questo “qualcosa”, probabilmente ci avrei scritto un articolo, non una canzone. Partendo da delle prese dirette, abbiamo invecchiato in post-produzione solo alcuni strumenti (pianoforte preparato, fiati, armonica e synth): non volevamo far suonare tutto vecchio, ma far emergere le canzoni da uno sfondo musicale polveroso, da un vinile graffiato. Le singole tracce sono state ripassate in due registratori a bobina, utilizzando dei nastri che avevamo precedentemente sporcato e rovinato. Giacomo Carlone ha poi lavorato in digitale per dosare questo effetto a seconda delle necessità del singolo brano.

Cosa vi ha indotto a preferire proprio questa traccia per presentarvi al pubblico? Quando potremo ascoltare altre nuove canzoni?
Ci siamo fidati del parere e delle emozioni delle persone che ci seguono: erano tutti concordi sul fatto che questo brano avesse qualcosa di molto caratteristico, che rappresentasse bene il nostro modo di suonare e il mio modo di scrivere. Ci ha sorpreso come scelta perché è la prima canzone che abbiamo registrato. Tra circa un mese uscirà un altro brandello di questo disco.
Sappiamo che in passato avete proposto il vostro progetto in una casa museo milanese con formazione allargata. Considerando i tempi di confinamento che stiamo ancora vivendo, l’idea di musica in luoghi atipici e legati alla cultura mi sembra molto interessante per riprendere ad esibirvi in concerto. Avete pensato di replicare questa opportunità, e in ogni caso c’è nei vostri programmi futuri il ritorno ad una dimensione dal vivo?
Sì, al museo Boschi Di Stefano. Abbiamo suonato in nove, con la stessa formazione che abbiamo usato durante le registrazioni. Suonare in un museo crea una particolare modalità di ascolto: l’atmosfera è molto concentrata e attenta, quasi liturgica. Per noi è una situazione ideale. Ci piacerebbe assolutamente replicare e lo faremo, guardiamo all’autunno. Abbiamo sempre registrato in presa diretta, ci piace suonare e ci piace farlo insieme. Non aspettiamo altro che ritornare a farlo in mezzo alle persone – possibilmente dopo le 10 di sera.
Foto ©Camilla Bianchi
Rispondi