I N T E R V I S T A


Articolo di Luca Franceschini

Francesca e Andrea hanno rispettivamente 20 e 19 anni, vengono dalla Bassa Modenese, più precisamente dalla zona di Finale Emilia e sono amici da una vita. Ortho è il primo frutto di un progetto che è stato pensato e voluto per parecchio tempo, ma che si è concretizzato solo nel 2018, quando Francesca è tornata dal Galles e le canzoni hanno cominciato a prendere forma, fino alla firma con la storica etichetta Totally Imported, che ha avuto e ha sotto di sé alcuni dei più importanti nomi italiani in campo Soul, Urban ed Elettronica (Ghemon, Mecna, Davide Shorty, Godblesscomputers, tra gli altri). Dall’Indie Folk spruzzato di Rnb di Breathless, Yellow Jumper e The One About Tomatoes, fino agli episodi più scuri e drammatici di Mama e Crystal Mind, il duo impressiona per maturità e consapevolezza stilistica, non escogita soluzioni particolarmente innovative ma è cosciente dei propri modelli e sa dove vuole arrivare, mescolando le fonti con disinvoltura, all’insegna della libera creatività. Un sound che dalle nostre parti è ancora piuttosto minoritario, nonostante il successo di un nome come Venerus (ma non dimentichiamo gli Ep di Cecilia e Laila Al Habash, solo per citarne alcuni) abbia di recente fatto capire che può esserci altro oltre al Rap e all’It Pop. Ne abbiamo parlato con Andrea e Francesca, raggiunti al telefono per una piacevole chiacchierata dove abbiamo messo sul piatto un po’ di argomenti interessanti.

Raccontatemi come è nato questo progetto, che poi non ho ancora capito se vi considerate più un gruppo o un duo…

Andrea: Più un duo, dai!

Francesca: Siamo un duo e siamo nati nel 2018, essenzialmente da una storia di amicizia. Avevamo voglia di condividere i nostri pensieri e di trasportarli in musica. Ci conosciamo da parecchio tempo e per diversi mesi di quell’anno ci siamo legati molto, quando poi sono tornata da Cardiff, al termine di un periodo molto intenso per me, abbiamo ripreso il progetto. Inizialmente ci siamo concentrati su quale genere proporre e abbiamo optato per qualcosa di acustico; successivamente, grazie anche all’aiuto di Lorenzo Borgatti, il nostro produttore, ci siamo trasformati in quello che siamo ora…

Per curiosità, come ci sei finita a Cardiff?

Avevo vinto una borsa di studio con la scuola, ho fatto Agraria e sono andata lì per studiare gli insetti… non una cosa comune, in effetti… (risate NDA)

Immagino che la scena musicale della città ti abbia aperto nuovi orizzonti…

Non ho vissuto un’esperienza così differente a livello musicale, anche perché avevo appena compiuto 18 anni ma nonostante questo non mi facevano entrare nei pub perché non credevano che fossi davvero maggiorenne (ride NDA) quindi direi che non mi sono goduta tanto Cardiff, da questo punto di vista… ho però imparato molto di più l’inglese e tante cose nuove, anche perché il posto è decisamente diverso dall’Italia.

Andrea: Io ho vissuto il tutto da sedentario perché sono rimasto a casa ad aspettare lei. Quando è tornata abbiamo scritto il primo pezzo, che era proprio un brano su Cardiff ed era intitolato semplicemente Cardiff. Credo fosse mezzo in italiano e mezzo in inglese, era un tentativo di fare qualcosa ma faceva piuttosto schifo (risate NDA)! All’epoca io ascoltavo soprattutto roba Indie Folk, non avevo ancora scoperto la musica brasiliana, il Soul e quelle altre sfumature che invece sono arrivate più tardi. Infatti il primo pezzo che abbiamo scritto, tra quelli che sono finiti sul disco, è stato Elide, che infatti ha un giro a la XX ed è molto britannico, come struttura e feeling. Sulla nascita del disco, ricordo un Capodanno piuttosto disastroso dove abbiamo parlato tantissimo e ci siamo presi bene, fino al punto da decidere che avremmo voluto fare della musica insieme. Quando Francesca è tornata da Cardiff ho percepito tutta la sua carica e ho recepito le sue idee; io all’epoca avevo solo un progetto e mi mancava tutta la parte introspettiva, più colorata della musica, con lei ho trovato il giusto modo per esprimerla.

Domanda scontata ma sono lo stesso curioso: da dove viene fuori il nome “Lazy Frenky”?

Anteprima(si apre in una nuova scheda)

Francesca: Nasce da una storia Instagram che feci a Cardiff, in pausa pranzo, dove scrissi: “Healthy Food for lazy Frenky” (Frenky ovviamente sarei io). In quel mentre lo attribuivo a me stessa, però l’espressione in sé suonava bene e per metà della mia permanenza ho continuato a pensarci. Ad un certo punto ho scritto ad Andrea e gli ho detto: “Senti, ma se quando torno in Italia parte questo progetto, possiamo chiamarlo Lazy Frenky?” E così è stato. Per cui prima che il progetto partisse, in pratica avevamo già il nome! Non è niente di che però suona bene, ci piace esteticamente, lo vediamo quasi come un’entità, non sono più io ma un Lazy Frenky che può essere qualsiasi persona che si rispecchia nella nostra musica, nelle cose che scriviamo.

Quello che colpisce di più, del contenuto di questo lavoro, è che c’è effettivamente una divisione in due parti, come avete sottolineato anche voi nel comunicato stampa: una prima fase che vira verso il Soul e l’Rnb, sempre concepito in chiave Lo Fi, un po’ come nell’ultimo disco di Arlo Parks, ed una maggiormente Indie Folk…

Andrea: Inizialmente, come ti dicevo prima, la mia base musicale era molto più influenzata dall’Indie e basata su sonorità prettamente chitarristiche. Poi nell’estate del 2019 ho scoperto João Gilberto, famoso cantante brasiliano, sono impazzito per la sua musica e ho scoperto che era morto proprio pochi giorni prima. Da lì ho iniziato ad interessarmi alla sua storia, alla sua carriera: mi ha colpito soprattutto il fatto che lui fosse un autodidatta e questa cosa mi ha fatto capire che il modo che questi artisti hanno di concepire la musica è innato, prendono la chitarra e pensano la melodia in maniera completamente diversa. È difficilissimo fare uno sforzo per pensare una melodia in quel modo così particolare perché loro per arrivare da A a B non trovano la strada più diretta, come nell’Indie, ma ne scelgono altre, meno scontate e più tortuose. Ho cercato a mio modo di imitarlo, non ho infilato così tanta Bossa Nova, l’ho più che altro affiancata all’Rnb e al Soul, perché sia all’etichetta che a noi piacciono tantissimo e ci sembrava che potessero fungere da contenitori per unire la Bossa Nova con l’Indie Folk. È venuto abbastanza bene ma possiamo fare meglio, possiamo contaminare ancora di più il nostro suono.

È per questo dunque che in “Stunning” ci sono alcune frasi in spagnolo?

Sì, quella è stata proprio una stupidata che ci è venuta in mente mentre registravamo. Non dice niente, semplicemente un “chiudi la bocca” per almeno sei volte ma ci piaceva…

Più che altro dà l’idea del senso di libertà che siete riusciti a creare, è un pezzo che fluisce molto liberamente, in un’atmosfera di festa.

Andrea: Esatto. Adesso Francesca ti dice di più sulla scrittura dei brani…

Francesca: È un lavoro che procede molto di getto, soprattutto i testi sono poco pensati, nascono da situazioni che ho vissuto in prima persona e che mi è venuto spontaneo raccontare. A volte mi capitava di scrivere una strofa o un ritornello ma di non avere tutto il pezzo completo e allora ci si metteva insieme con Andrea durante le prove. È forse anche per questo che ci sono tutte queste immagini un po’ childish, fresche, non c’è un’emotività pesante ma è tutto molto spontaneo, probabilmente dipende proprio dal momento in cui è stato scritto, dove fluivano delle emozioni sulle quali poi sono state aggiunte altre cose. Altre canzoni che sono nate in maniera spontanea, quindi, è stato perché sono state aggiunte parti in più. La parte più creativa a livello musicale è quella di produzione, che è stato un lavoro ulteriore. Potremmo dire che si tratti di un disco a strati: prima i testi, poi la chitarra o le tastiere, poi tutto il resto.

In effetti c’è una base acustica ma poi ci avete messo sopra parecchia roba. Chi suona gli altri strumenti?

Francesca: Della maggior parte delle cose ci siamo occupati io e Andrea. Le batterie però le ha fatte Massimo Borghi, che è anche il batterista di Birthh. Hanno partecipato anche i ragazzi di DJSTIVO, un altro gruppo della Totally Imported, che si sono occupati dei fiati. La maggior parte delle cose le ha poi fatte Lorenzo, direttamente in studio.

Andrea: Lorenzo tra di noi è quello studiato (risate NDA)!

Siete giovanissimi, eppure avete dichiarato che “Ortho” è un disco che parla essenzialmente di nostalgia. Ma si può davvero essere nostalgici a 19 anni?

Andrea: Sì, tantissimo (risate NDA)! Tutti i pezzi, come dicevamo prima, hanno questo alone d’infanzia che emerge e secondo me la nostalgia più grande è questa, il momento in cui ti rendi conto di non essere più un adolescente (perché puoi anche mentire a te stesso ma a 20 anni sei già inserito nel mondo degli adulti!) e ti manca un sacco l’infanzia, una condizione che credo colpisca un po’ tutti gli esseri umani. Poi però purtroppo il disco ha assorbito un altro tipo di nostalgia, che è quello per la vita normale, visto il periodo. Per cui quando ci hanno chiesto di che cosa parlava il disco, ci è venuta in mente la nostalgia infantile ma anche quella del periodo in cui questo disco lo stavamo suonando in studio, nel momento in cui scrivevamo i pezzi… ed è una nostalgia più amara, perché non ha quella naturalità e quel retrogusto agrodolce che hanno i ricordi dell’infanzia. Non volevo parlare di Covid, mi ero ripromesso di non farlo ma alla fine ci sono caduto da solo (risate NDA)!

Francesca: Ci sono due canzoni in particolare che racchiudono questa nostalgia di cui parlava Andrea: Elide e The One About Tomatoes. La prima parla di mia nonna, che è venuta a mancare e io in quel momento mi sono sentita particolarmente nostalgica, mi mancava la sua presenza e quindi in questa canzone ho messo dentro tutti i ricordi che ho di lei. L’altra invece parla di una storiella che mi raccontavano quando ero bambina, che sotto traccia contiene il messaggio che siamo tutti belli perché siamo tutti diversi. Credo però che ci siano altri tipi di nostalgia, semplicemente gli amori adolescenziali, quando finiscono, ti fanno sentire in un certo modo. Poi io come temperamento ce l’ho molto questa cosa, mi capita di sentire la mancanza di esperienze che ho fatto due giorni prima (ride NDA)!

E invece “Yellow Jumper”? Mi colpisce molto il suo carattere spensierato e in qualche modo sognante, legato anche all’oggetto del titolo…

Francesca: Il giallo in effetti è il colore che più si addice al disco, per un po’ di tempo anche noi ci siamo molto fissati! Il nostro logo oltretutto è una foglia di ginko biloba e spesso lo facciamo di quel colore. Yellow Jumper parla di un amore che non c’è mai stato e che mai ci sarà ma ne parla, anche lì, in maniera un po’ nostalgica. È una sorta di rassegna delle cose che avrei voluto fare con una certa persona e che non ci sono state. Nasce dalla rielaborazione di un testo in cui c’era questo elenco infinito di “Vorrei fare…” e l’idea è che si soffre anche per gli amori che non si sono concretizzati. E dico in sostanza che il mio desiderio più grande sarebbe stato quello di prestare a questa persona la mia felpa gialla durante i viaggi in macchina. L’abbiamo poi strutturata con Andrea in maniera abbastanza complessa perché è un pezzo con tanta dinamica e con dentro parecchie cose.

Avete detto che “Ortho” ha un’atmosfera molto “childish” ed effettivamente per gran parte dei brani è così. Ci sono però anche cose più “scure”, diciamo, più drammatiche nell’atmosfera e nel mood generale. Penso soprattutto a “Mama” ma anche a “Crystal Mind e a “Letter to Earth”.

Francesca: È il lato più “tastieroso”, diciamo così, di Lazy Frenky, quelli sono pezzi al pianoforte e siccome la tastiera la suono io, mi viene più difficile fare cose allegre! Poi in realtà affrontano tematiche molto diverse: Mama è più densa a livello di contenuti, parla delle varie differenze di visione che ci sono in questo mondo, ad esempio bambini che vivono in Europa, nati e cresciuti con una certa educazione che insegna ad essere in una maniera “standard”, diciamo così, senza mai andare oltre. È un po’ una caratteristica delle ultime generazioni e sicuramente anche della nostra, anche se noi forse sembriamo più una generazione di attivisti (ride NDA). Poi però c’è un altro risvolto, dove si parla di bambini che vivono nel terzo mondo, a cui viene inculcata una dottrina per cui bisogna per forza fare certe cose altrimenti non si ha futuro e così diventano soldati o ladri, cose così. Per cui l’idea è che se non usiamo la nostra umanità per affrontare il mondo, saremo tutti fregati.

Andrea: Crystal Mind invece ha un testo apocalittico, ci sono immagini di palazzi che crollano e robe del genere. È il primo che abbiamo prodotto, Lorenzo ce l’ha mandato facendosi sentire che cosa aveva in mente in generale; lui ha questo modo di produrre che è molto scuro, cupo, anche se non si sente in tutti i pezzi. In questo caso gli abbiamo dato via libera e il risultato è veramente bellissimo. È uno dei pezzi più difficili da fare perché c’è un 7/4 non voluto, venuto fuori all’improvviso e poi la chitarra non compare quasi mai, se non alla fine, dove fa questo alone che va a sottolineare certe frasi. E poi è molto diverso dagli altri, c’è addirittura questo Beat semi Trap nel ritornello e per tutti questi motivi eravamo un po’ indecisi se metterlo o meno; alla fine però, vedendo anche come si stava evolvendo l’album, lo abbiamo inserito. È un brano che ti indirizza subito verso la parte più scura delle canzoni…

Francesca: Sono particolarmente affezionata ad Hello Earth, perché è il primo pezzo che abbia mai scritto in vita mia. È molto vecchio rispetto agli altri, ma penso che la sua forza sia quella di esprimere un sentimento che abbiamo ormai tutti. Parla dei cambiamenti climatici ed è una sorta di lettera di addio in cui io e la Terra ci incontriamo in un bar a discutere e lì vedo quanto sta male, perché noi esseri umani la stiamo in pratica distruggendo. Nella prima parte della mia adolescenza questo problema mi è stato particolarmente a cuore; anche adesso ovviamente ma ricordo che quando ero un po’ più piccola lo vivevo con sofferenza e angoscia, sentivo che doveva essere proprio un mio compito, quello di salvarla. Probabilmente è per quello che avevo scelto di studiare Agraria, anche se poi oggi mi occupo di tutt’altro. Oggi è un argomento che è più al centro dell’attenzione, per cui mi auguro che prima o poi questo pezzo tocchi veramente tutti. Occorre che tutti nel nostro piccolo facciamo qualcosa, altrimenti lo scenario che racconto in questa canzone diventerà sempre più reale.

A tal proposito, vorrei capire da voi, che siete i diretti interessati, come percepite la vostra generazione rispetto al mondo degli adulti. In questi ultimi anni mi pare che la frattura coi cosiddetti boomer si sia allargata notevolmente e la narrazione nei vostri confronti sia più o meno sempre in senso peggiorativo…

Francesca: Credo che il punto principale sia che tra la nostra generazione e quella degli adulti c’è un divario enorme nel modo di comunicare. Se i cosiddetti “vecchi” ci danno dei fannulloni è perché abbiamo un modo di comunicare talmente veloce che sembra quasi inconsistente: in effetti la consistenza di Internet è astratta, non è reale. Credo che la differenza stia proprio qui, perché poi noi giovani cerchiamo di fare del nostro meglio e soprattutto sul tema dell’ecologia credo che siamo più attenti dei nostri genitori e dei nostri nonni, che sicuramente avrebbero potuto fare di più. Il fulcro della questione comunque sta nella tecnologia, secondo me.

Andrea: Sono d’accordo. Il punto è proprio che abbiamo più strumenti a disposizione, diventa molto più semplice informarsi, anche se poi ovviamente c’è un modo cosciente e attivo di farlo che purtroppo è più raro, per la maggior parte c’è un modo un po’ più osmotico, da spugna, di guardare dove tira il vento e andargli dietro. Credo comunque che per queste cause ambientaliste, l’importante sia muoversi. Per questa generazione vedo un sacco di possibilità, tante speranze però la sento anche molto vuota, sento che quando tocca certi argomenti lo fa con grande superficialità e questo un po’ mi preoccupa.

Francesca: Dovremmo sicuramente imparare ad utilizzare meglio alcuni strumenti. Ci vorrà del tempo perché sono tutte invenzioni troppo recenti perché possiamo avere capito tutto di essi.

Andrea: È una domanda che ci poniamo da un sacco di tempo e soprattutto ultimamente ne stiamo parlando molto.

Per chiudere, altra domanda banale ma che tocca un tema interessante, almeno secondo me: l’eterno dilemma: cantato in inglese vs cantato in italiano…

Francesca: Ahahah certo (risate)! Ci sono diversi motivi per cui scriviamo in inglese. Il primo, più scontato, è che io per gran parte della vita ho ascoltato quasi solo musica inglese e quindi l’ho assorbita molto di più, mi viene naturale scrivere testi in quella lingua. Poi c’è un motivo più “psicologico”, diciamo: l’inglese è meno capibile dagli italiani, ovviamente, per cui scrivere in inglese è stato per molto tempo il modo per potermi emancipare, per poter dire davvero quello che ero, senza tuttavia farlo capire agli altri. Poi è chiaro che quando ti rendi conto che la tua voce è davvero una voce, puoi arrivare a sfruttarla al massimo, in ogni modo, e quindi non è escluso che in futuro mi metterò a scrivere in italiano. Però mi è evidente che l’inglese è stato il mezzo che mi ha permesso di essere davvero la Francesca che volevo. Mi rendo conto anche che per scrivere in italiano occorre arrivare ad accettarsi del tutto, in ogni parte di sé, per non provare imbarazzo per quello che si canta.

Andrea: Non ho scritto io i testi del disco, a parte Stunning, che è una cosa mia vecchia. Non riuscirei comunque ad utilizzare l’inglese in maniera decente a livello poetico, soprattutto in questo periodo mi sono reso conto di ricevere molti più spunti dall’italiano, e avendolo come lingua madre mi è molto più facile scrivere. Anche per questo, può essere che ci sposteremo sull’italiano ma è comunque un passaggio difficile: non è solo una questione tecnica, c’è dietro tutta una poetica, uno stile, non è un cosa da poco. Ad ogni modo io scrivo meglio in italiano e scrivere in questa lingua potrebbe essere anche un modo per lasciare un’impronta in Italia. Tieni poi conto che Ortho, che pure è appena uscito, che pure amiamo tantissimo, è un disco vecchio, ormai, ci ha messo un sacco ad uscire, noi lo avevamo pronto da anni. Questo vuol dire che la roba nuova che abbiamo in mente di fare è di gran lunga superiore a questa e non vediamo l’ora di poterci lavorare. In questo, l’Italiano potrebbe davvero lasciare un segno effettivo, capiamo che questo avrebbe come conseguenza l’essere più di nicchia, non avere un mercato estero ma non per questo abbiamo smesso di rifletterci. Dopo tutti questi ragionamenti, credo comunque che l’inglese sia meglio da sentire!