I N T E R V I S T A


Articolo di Luca Franceschini

Possiamo discutere quanto si vuole sulla standardizzazione della musica italiana, sull’It Pop che sta stravolgendo tutto, sulla scomparsa del disco e sulla pigrizia delle nuove generazioni; alla fine però, quando esce fuori un nome come Frambo, bisognerebbe riuscire a fare un ragionamento più complesso. È senza dubbio vero che le cinque canzoni di Routine, il suo Ep d’esordio, si muovono in un solco predeterminato e preconfezionato, in uno spettro sonoro che parte da Calcutta per arrivare a Frah Quintale. Tuttavia è altrettanto evidente che dietro ad una certa ingenuità (Riccardo è giovanissimo e questi brani li ha in giro da un po’) e ad una irruente baldanza da imitazione del modello, ci stia anche una invidiabile abilità nella scrittura: episodi come Domenica e Tour Eiffel, usciti come singoli nei mesi precedenti, hanno giustamente totalizzato ottimi numeri, complice un tiro efficace ed un uso irresistibile delle melodie. Niente di nuovo ma quel che fa lo fa bene, potremmo sintetizzare. E non c’è quindi da meravigliarsi se La Clinica Dischi, l’etichetta di La Spezia che negli ultimi anni si sta distinguendo per l’ottima qualità del proprio roster (cmqmartina e svegliaginevra tra i nomi più importanti) abbia deciso di puntare su di lui.
Lo abbiamo raggiunto al telefono per conoscerlo e per scoprire qualcosa di più sul suo debutto discografico.

Direi di cominciare dall’inizio: da quando hai capito che avresti voluto scrivere canzoni fino al tuo approdo a La Clinica Dischi.
Alla scrittura sono arrivato bene o male nello stesso momento in cui ho deciso che avrei voluto fare musica, nel senso che non mi ero mai messo a scrivere prima, nemmeno una poesia. A 14 anni, in un periodo che è stato per me piuttosto triste, ho preso in mano una chitarra che avevo in casa e ho pensato che sarebbe stata una buona idea imparare a suonarla. Mi sono messo lì, ho provato alcuni accordi, ho sostanzialmente fatto l’autodidatta. Le parole sono sgorgate subito, perché ascoltavo già parecchia musica, ne avevo molta in testa. Ho scritto da subito parecchie canzoni che poi ho pubblicato su YouTube, avevo il mio canale. Clinica è arrivata ai miei video, sono piaciuti, mi hanno scritto e da lì è nata la cosa: ci siamo trovati molto bene insieme, sono persone simpaticissime e davvero molto in gamba, è molto bello lavorare con loro.

Cos’hai messo nell’Ep, quindi? Una selezione delle cose che avevi precedentemente buttato fuori, oppure c’è anche roba nuova?
Sono tutti brani inediti: c’erano una ventina di pezzi e abbiamo fatto una scrematura. Abbiamo deciso di mettere proprio questi cinque perché ci siamo accorti che si legavano abbastanza bene insieme, che formavano un insieme coerente, anche se il mood e i colori sono un po’ differenti tra loro.

Probabilmente uno spartiacque ideale sarebbe tra i primi tre pezzi, molto più Up Tempo, catchy e con qualcosa di Neo Soul a la Frah Quintale e le ultime due, che hanno atmosfere un po’ più tristi e si muovono nel solco dell’It Pop tradizionale…Concordo pienamente, hanno effettivamente due anime diverse, le ultime due sono proprio due ballad classiche.

Parliamo di modelli: da chi hai iniziato? Ci sono dei nomi che ti hanno folgorato? In “Tour Eiffel” nomini Guccini, Battisti e De André però è palese che ti muovi in una direzione diversa…
Ho preso in mano la chitarra perché ho conosciuto Calcutta (era il 2015 ed era appena uscito Mainstream), per cui sono completamente andato in fissa. Da lui è partito tutto un innamoramento per quel genere che possiamo chiamare “Indie”, con nomi tipo L’officina della camomilla, Frah Quintale, il primo Gazzelle… questi qui sono quelli che mi hanno innescato la scintilla, che mi hanno ispirato, poi però il cantautorato italiano ha avuto il suo ruolo, certo.

È logico che a partire dal presente poi uno vada indietro a vedere quali sono i riferimenti da cui è partito tutto, anche perché poi questi stessi musicisti “Indie” hanno iniziato da lì (Calcutta, per dire, non ha mai nascosto la sua passione per Carboni). Non è però così automatico che uno lo faccia davvero e che assorba due spettri d’influenza così diversi. Com’è stato per te?
La voglia di scoprirli è nata dalla mia fame di musica, dalla mia grande curiosità, mentre invece l’accostamento di questi due tipi di influenze nella mia scrittura è il frutto di un processo totalmente inconscio, nel senso che ascoltando ho assorbito un po’ di uno, uno po’ dell’altro ed il prodotto finito alla fine è questo qui.

Oltretutto hai una facilità di scrittura estrema, i tuoi pezzi sono molto immediati, hai una tendenza al ritornello tormentone e devo dire che, nonostante sia un disco molto fresco e diretto, non rivela immediatamente la sua anima, cresce con gli ascolti. Un qualcosa di abbastanza inusuale, in questo genere.
Solitamente butto giù una parte con la chitarra e ci lavoro sopra. E c’è da dire che io non riesco mai a scrivere fuori da camera mia. Lo dico perché ogni tanto leggo interviste ad artisti che dicono di aver scritto un determinato brano mentre erano ad una festa, sul bus… e invece io sono sempre qui e non riesco a scrivere nulla in altre situazioni (ride NDA)! Poi sì, è vero che le canzoni mi escono fuori abbastanza velocemente però è un aspetto a cui sto cercando di prestare più attenzione: cioè, va bene la spontaneità ma secondo me a volte c’è bisogno di prestare più attenzione, di lavorare meglio su quello che si fa.

Lo hai intitolato “Routine”, che non è proprio un termine bellissimo…
In primo luogo perché mi porto dietro questi cinque pezzi da un bel po’ di tempo (ride NDA)! Continuavo ad ascoltarli e sapevo che rappresentavano la mia comfort zone, quelli che mi uscivano meglio. Ma poi c’è anche il fatto che i brani, pur se scritti in momenti anche distanti l’uno dall’altro, sono usciti fuori da periodi non positivi e anche per me il concetto di routine non è positivo, è un qualcosa di assolutamente nocivo per l’essere umano. Ho voluto così esorcizzare il concetto mettendolo come titolo, nel contesto negativo in cui questi pezzi sono nati, ho pensato che così ci avrei fatto i conti una volta per tutte.

I primi due pezzi, “Domenica” e “Guerra”, sono evidentemente collegati dal punto di vista testuale…
Manco a farlo apposta, Domenica l’ho scritta un anno e mezzo fa, a partire da questo ritornello: “La guerra non si fa di domenica”. Canto così perché la domenica è il giorno in cui si riposa, bisogna stare tranquilli, non si può mica mettersi a combattere! Guerra invece è nata qualche mese dopo ma non c’è un vero e proprio collegamento, probabilmente è stato un meccanismo inconscio; è vero che, a risentirle, è come se ci fosse un legame tra le due. L’immagine della guerra, in particolare, ricorre più volte in entrambe…

Di che tipo di guerra parli? Immagino riguardi soprattutto le relazioni personali…
Sia in Guerra che in Domenica si fa riferimento ad un conflitto di coppia che poi va a sfociare in qualcosa di più profondo, un dolore non tanto fisico, quanto mentale. La guerra non si fa di domenica perché la domenica è, almeno per me, un giorno fastidioso, un giorno dove non si fa nulla, come se vi fosse una sorta di imposizione a renderlo triste. Quindi, già è una giornata un po’ così, se ci metti pure il conflitto con una persona, in un giorno dove già ti vorresti sparare (ride NDA)…

Nella canzone omonima però, la guerra si concretizza anche nella distrazione che questa persona rappresenta per l’io narrante, il tutto raccontato con una certa dose di ironia…
In realtà è un tira e molla tra me e me, nel senso di: “Voglio stare con te ma allo stesso tempo preferirei stare in cima all’Everest!”. C’è una sorta di conflitto, di rimuginazione interiore, dove cerco di trovare dei pregi ma nello stesso tempo anche dei difetti, che mi possano convincere a stare o non stare con quella persona. E in questo rimuginare c’è anche un po’ di ironia, sì.

Nella stessa canzone dici che “Pulp Fiction è sopravvalutato”: ti sei reso conto della pericolosità dell’affermazione (risate NDA)?
È molto pericolosa, già (ride NDA)! Quasi nessuno mi ha insultato in realtà, a parte un mio amico di Clinica, il grande Marchino (meglio conosciuto come Altrove, uno degli artisti del roster dell’etichetta NDA), che se l’è presa parecchio (risate NDA)! Guarda, a me piace da morire Quentin Tarantino, però “Pulp Fiction” non sono mai riuscito a tollerarlo, non so perché! In più si è aggiunta questa cosa di una persona che mi sta terribilmente antipatica e che continuava ad osannare questo film, tra l’altro nel classico modo fastidioso di chi ha un gusto molto Mainstream (poi non è che io sia chissà che, eh!), dà l’idea di non capirne molto ma si mette a gridare al capolavoro ogni due per tre, giusto per seguire il pensiero comune. E così, scrivendo il pezzo, mi è uscito fuori quel pensiero!

Forse, al di là dell’ironia del caso, potresti aver colto un risvolto importante della questione: è che i Social, negli ultimi anni, hanno amplificato il fenomeno del giudizio come posa, come marchio identitario, sia che venga formulato per esaltare, sia per denigrare un oggetto. E in entrambi i casi, la conseguenza è che diviene più importante sparare sentenze piuttosto che approfondire ciò che si ha davanti.
Certamente. Poi, nonostante “Pulp Fiction” non mi faccia effettivamente impazzire, quel verso andrebbe letto più come reazione infastidita verso quella determinata persona, piuttosto che come un giudizio critico.   

Senti, domanda banale ma mi sono dimenticato di chiedertelo prima: perché “Frambo”?
Di cognome faccio Framboas, da quando vado alle elementari mi hanno sempre chiamato Frambo…

Hai origini particolari?
Ma guarda, di per sé io sono italianissimo, così come i miei genitori, nonni e bisnonni. Si pensa sia di origine francese, probabilmente napoleonica, ma devo ammettere di non aver mai approfondito la questione, dovrei farlo…

A me parrebbe più portoghese…
Sì, però si è probabilmente trasformato nel tempo, all’inizio doveva essere Frambois, quindi si pronunciava “Frambuà”. Almeno così mi è stato detto.

Tu sei molto giovane, frequenti ancora le scuole superiori (il liceo artistico ad Arezzo NDA), una cosa non proprio usuale perché normalmente la maggior parte degli artisti italiani arriva a pubblicare qualcosa più avanti con l’età. Che ruolo ha la scuola nella tua vita? Sei contento di andarci o la vivi come un peso?
È sempre stato abbastanza piacevole andare a scuola, tranne il primo anno delle superiori, che ho perso…  

Ah già, l’hai scritto anche in un pezzo…
Amo la mia scuola, mi ci trovo molto bene, chiaramente col Covid ci sono state molte difficoltà e sto cercando di lasciarmi alle spalle in fretta quest’annata e possibilmente anche la seconda, visto che non ne posso più (ride NDA)! Non direi che mi abbia influenzato in modo particolare, però sicuramente ha contribuito a rendermi più spensierato: molta gente la scuola la vive molto male, io invece tutto sommato me la sono goduta!  

Progetti futuri? Live in vista?
Ancora è da decidere, stiamo valutando. Quello di cui sono certo è che dopo l’estate uscirà un altro Ep, che concluderà il ciclo iniziato con Routine.