I N T E R V I S T A
Articolo di Nadia Merlo Fiorillo
Riccardo Piccirillo sognava di diventare un chitarrista blues, però la vita aveva in serbo per lui ben altri traguardi. E infatti sul palco c’è salito centinaia di volte, ma per fotografarla la musica, non per suonarla. Il libro che ha appena pubblicato – Il silenzio che c’è fuori – celebra i primi dieci anni del fotografo di musica RicPic. Lo fa attraverso una selezione delle foto e dei ritratti più significativi scattati agli artisti di stanza a Napoli, chi passato in città per suonarci live, chi per mettersi in posa nello studio di Riccardo in via Costantinopoli.
Un libro – Il silenzio che c’è fuori – che non a caso ha forma e dimensioni di un vinile 33 giri, quasi a voler chiudere il cerchio con le intenzioni di quel ragazzo che, pur non diventando un chitarrista blues, è rimasto comunque nel solco della musica. E c’è rimasto con la sua presenza garbata, lo sguardo attento a catturare bellezza e una macchina fotografica sempre in mano. Qui la nostra chiacchierata.
La foto che apre il libro è quella che in qualche modo segna la tua svolta da appassionato ascoltatore di musica a fotografo di musica. Da lì in poi sei stato RicPic. Ci racconti come è andata?
2010: avevo appena comprato un kit reflex semi-professionale con obiettivo tuttofare in uno di quei megastore di elettronica. Porto la fotocamera con me al concerto di Ruthie Foster al Liri Blues Festival e scatto dal pubblico. Riguardando le foto, mi rendo conto di aver fatto un buon lavoro e le pubblico sul web. Il giorno dopo ricevo una mail dalla redazione di Kulturtipp, un magazine svizzero che voleva comprare una di quelle foto come cover del prossimo numero della rivista. Chiedo su un forum di fotografia come avrei dovuto comportarmi e mi dicono che, non avendo avuto io nessun pass accredito o formale autorizzazione a fare riprese fotografiche al concerto, avrei rischiato tanto perché sicuramente il management dell’artista avrebbe visto la foto su Kulturtipp. Così decido di scrivere al management di Ruthie chiedendo l’autorizzazione a vendere la foto e per essere più convincente dico loro che se non mi avessero dato autorizzazione, il magazine avrebbe messo in copertina un artista diverso da Ruthie. Non solo ebbi l’autorizzazione, ma il management trovò gli scatti straordinari e li comprò. Uno di questi è diventato la copertina di un disco di Ruthie e la foto che la rappresenta da 10 anni a questa parte. È andata così e non è andata affatto male.

Il silenzio che c’è fuori raccoglie 216 immagini fra le oltre 35mila foto che hai scattato in dieci anni, sopra e sotto i palchi ma non solo. Però non sei stato tu a selezionarle. Indeciso, troppo di parte o cosa?
Arriva un momento in cui è utile fermarsi e fare ordine, porsi delle domande e cercare di capire chi sei. Durante il lockdown ho raccolto i miei 35.000 scatti a musicisti e li ho affidati a Barbara Silbe. Barbara è curatrice, critica, giornalista e direttore responsabile di Eyes Open, un bellissimo magazine di fotografia. Le ho chiesto: “Barbara, cosa c’è nei miei scatti? Quali sono i migliori? Perché?”… etc. etc. Abbiamo, quindi, lavorato un anno insieme e le ho dato le chiavi del mio archivio, lasciando che fosse lei a selezionare le foto del libro. Analizzando le fotografie, Barbara mi ha detto che quasi tutte le mie foto restituiscono una sensazione di sospensione, come se fosse appena successo qualcosa o stesse per succedere. Insomma, questa è la mia cifra stilistica. Se invece avessi fatto io le scelte, il libro sarebbe stato diverso: probabilmente di parte. Ora, sfogliandolo, la prima cosa che salta all’occhio è l’autore delle foto e non un musicista o l’altro. Il rischio, se avessi fatto le scelte io, era proprio di dare priorità ai musicisti e alla musica, non a me come autore.

Il musicista più facile e quello più difficile da fotografare.
I musicisti più facili da fotografare sono quelli che ascolto e di cui conosco discografia e carriera. Sai, essere fan di qualcuno che ascolti rende tutto più semplice. Poi, però, c’è il carattere del musicista e qui puoi essere fan quanto vuoi tu, ma non te la cavi con la stima. Poi ci sono musicisti che fanno musica che non ti piace e che hanno anche un brutto carattere. Ecco, questi sono quelli difficili da fotografare. Ti posso comunque dire che quanto più i musicisti sono rocker e fanno musica più “estrema”, tanto più sono soggetti affabili e predisposti a farsi ritrarre. I più complicati ed esigenti sono senza dubbio “i cantautori”, ma non faccio nomi, anche perché ne ho fotografati tantissimi.

Osservando le immagini nel libro, ho notato che un ritratto scattato nel tuo studio trasmette una sensazione diversa da quella di una foto fatta durante un live. Dipende dal cambio di contesto e situazione o a cambiare è il tuo sguardo, il tuo approccio allo scatto?
Amo la musica e i concerti. Fotografo ai concerti per puro piacere e soprattutto mi godo lo spettacolo. Tante volte sono andato a concerti a cui non avrei mai assistito e sono tornato entusiasta. Ma la fotografia ai concerti, a mio avviso, deve raccontare sì il musicista ma soprattutto lo spettacolo. Vedo tanti miei colleghi cercare di tirare fuori un ritratto da uno show, dimenticandosi che il compito principale di chi è chiamato a fotografare un concerto è il reportage e che i musicisti sono lì per fare uno show e non per farsi ritrarre. Perciò una buona foto di un concerto trovo che debba essere più impersonale, più documentaristica, senza per forza mettere in evidenza l’autore. Se poi escono fuori l’autore e il racconto, allora il lavoro è riuscito. In studio cambia tutto. L’artista è lì per me, non per il pubblico, e insieme lavoriamo per dare un’immagine a delle note. Qui è l’autore della foto che deve venire fuori perché è proprio il musicista che ha scelto quel fotografo piuttosto che un altro. Naturalmente fotografare in studio è tutt’altra storia, molto ma molto più soddisfacente e difficile!

Secondo te, un fotografo immortala momenti o persone? E ne Il silenzio che c’è fuori a chi o cosa hai donato immortalità?
Il compito di un ritrattista è quello di raccontare una persona, il momento va in secondo piano. Diverso l’obiettivo di chi fa un reportage: lì prevale il momento.
Il silenzio che c’è fuori è la mia storia di fotografo. Ho dato immortalità a me!
C’è molta scena musicale napoletana nel tuo libro. E molti musicisti della scena napoletana sono anche tuoi amici. Nel loro caso ritrai l’amico o l’artista? Insomma, quando appoggi l’occhio al mirino fai una foto a Raiz o a Rino Della Volpe?
Sempre all’artista e non all’amico. Poi, capita che Raiz e Rino si assomigliano così tanto da non notare alcuna differenza caratteriale. I musicisti sono quasi tutti veri, è difficile che siano così diversi dalla loro musica. Anche perché il pubblico vuole la verità e quando la trova, la premia. Un disco fatto solo per scalare le vendite o avere successo non funziona quasi mai. Quando, invece, fotografo gli attori spesso convivono due o più persone nello stesso soggetto.

Quanta umanità c’è nel tuo libro e che genere di umanità è?
Tantissima. Ci sono le note, gli strumenti, la gioia, la condivisione, i sentimenti, la passione e i sacrifici. Ci sono tanti generi musicali e un sacco di colori. C’è soprattutto la musica che è il mio più grande amore.
Hai la possibilità di fare un solo viaggio con la macchina del tempo: dove arrivi, in quale anno e per fotografare chi?
15 agosto 1969 – Woodstock. Voglio fare 100 ritratti di 100 spettatori diversi per poi cercarli oggi da anziani e rifotografarli 50 anni dopo.

Stai sfogliando il tuo libro di foto, dieci anni della tua vita. Ora puoi dire qualcosa al ragazzo che sognava di diventare un chitarrista blues. Ci salutiamo così: cosa gli dici col senno e gli eventi di poi?
Gli dico: “Dovevi renderti conto prima che sei nato per fotografare la musica!”. Oggi avrei un archivio pazzesco, considerando tutti i concerti a cui ho assistito e tutti i musicisti che ho incontrato.
Ultima cosa: “Non smettere mai di cercare chi sei e spera di non riuscirci mai totalmente, lasciando così sempre spazio alla tua giovinezza”.
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