L E T T U R E
Articolo di Simone Santi
Nelle prime pagine del suo affascinante saggio dedicato alla figura di Parmenide e alle origini della sapienza greca, Peter Kingsley scrive che ‹‹la cultura occidentale è la cultura della rimozione››[1].
Ora, che si tratti o meno di un meccanismo di rimozione, è possibile osservare come la nostra sia una cultura che pratica attivamente la dimenticanza. Al di là di un atteggiamento talora retrospettivo ed espositivo nei riguardi della dimensione artistica umana – e quando si tratta della cultura degli altri, di un atteggiamento curioso più del folklore e dell’espressionismo dell’arte che non della comprensione dei diversi livelli di percorso e di significato – la nostra società si rivolge mal volentieri al proprio passato e tiene in poco conto la Storia nel cui alveo si è prodotta; col suo “procedere in avanti” (pro-gradior) ripiegato sul mero sviluppo tecnologico che non si interroga sulle proprie ripercussioni, e rivolto al risultato economico più immediato e irresponsabile – essa proietta un’immagine tautologica di se stessa verso il futuro, sembrando non avere più gli strumenti, men che meno la volontà, di elaborare e proporre una visione complessa insieme ad un’escatologia positiva riguardo all’uomo e al suo destino.

Sempre secondo Kingsley, il principale oggetto di rimozione sarebbero proprio le nostre radici: ‹‹La consapevolezza che abbiamo perduto riguarda il passato, ma non come viene generalmente inteso. Il passato siamo noi, e perfino il nostro domani è il passato che si ripete. […] Possiamo andare verso il futuro solo se guardiamo il nostro passato e torniamo a essere ciò che siamo veramente. […] Tutto quello di cui abbiamo bisogno è dentro di noi, nelle nostre radici, e attende solo di essere ritrovato.››[2]. La visione filosofica dell’autore è espressa con chiarezza. Volgersi al passato non si riduce al gioco nostalgico del riattualizzare un tempo trascorso e idealizzato; ben altrimenti vivere il rapporto col proprio passato consente la riannessione di quel sostrato di significati originari e fondanti che costituiscono il crogiuolo del nostro essere, e che possono riaffermare un discorso di senso e di autenticità ad un’esistenza sempre più in balia degli accadimenti; e, insieme al senso, indicare finalmente l’oggetto ultimo al nostro desiderio. Desiderio (de-sidera) è il sentirsi lontani dalle stelle; la perdita di contatto con la verità più autentica e totale di noi stessi è ciò che ci costringe a siffatta lontananza, a quella che potremmo considerare come una forma di esilio dalla felicità, se con tale termine immaginiamo la felice realizzazione della nostra natura.
La condizione di esilio entro la quale sembra svolgersi, pare con pochi ripensamenti, la vicenda del mondo occidentale, reso sempre più sfibrato ed esausto dal proprio stesso nichilismo esistenziale e dal riduzionismo capitalistico, ne segna anche la crisi profonda che ormai attraversa ogni suo settore. ‹‹Sotto tali auspici,›› scriveva uno studioso e cercatore ispirato quale è stato Edouard Schuré già nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, ‹‹letteratura ed arte hanno perduto il senso del divino››[3]. In questo clima culturale e psicologico di perdita del senso del divino e di secolarizzazione di ogni ambito del sapere e dell’esperienza, hanno tratto ragione e nutrimento la non più marginabile insoddisfazione e il pessimismo che hanno spinto tante persone a cercare altrove la propria realizzazione. Numerosi sono coloro che da oltre un secolo e mezzo affidano il bisogno di maggiore interiorità alle filosofie e alle discipline orientali, e in tempi più recenti agli ammiccamenti di prodotti (pseudo)spirituali nella galassia new age o di quel variegato mondo che va sotto la dicitura di neo-sciamanesimo. Tuttavia, ci avverte Kingsley, ‹‹noi siamo figli dell’Occidente e più ci rivolgiamo all’Oriente più diventiamo spiritualmente schizofrenici, come vagabondi in patria››[4]. Una tale condizione è definita dallo stesso autore con la definizione iconica di nomadi culturali; immagine che traduce in maniera efficace e opportuna la condizione di esilio da noi stessi e dalle nostre radici.
Con l’aver riportato le parole di Kingsley, non intendo punto negare e men che meno ridimensionare la ricchezza in termini di conoscenza e di opportunità che possiamo trarre dalla frequentazione di altre tradizioni spirituali. È necessario piuttosto essere attenti a non parodiare pratiche che appartengono a contesti culturali diversi dal nostro, trasformandoli in prodotti – secondo un approccio di tipo consumistico – riadattati ad un pubblico occidentale, facilmente e familiarmente acquistabili e fruibili da esso. Non dobbiamo mai dimenticare che noi rimaniamo figli della cultura nella quale abbiamo formato le basi delle nostre strutture di conoscenza, soprattutto quando approcciamo esperienze e tradizioni che rispondono alle realizzazioni e all’immaginario simbolico di società diverse dalla nostra; né mai dobbiamo dimenticare che qualsiasi cammino spirituale non ammette scorciatoie, ma si accompagna inderogabilmente a un profondo e inesauribile lavoro di trasformazione e di rivelazione.
Piuttosto trovo utile esplicitare come nell’invito posto da Kingsley a ricercare e riscoprire le radici più antiche e nascoste delle nostre origini, viene già balenata la promessa di una scoperta sorprendente. Quanto più infatti ripercorriamo a ritroso i molteplici sentieri che gli uomini hanno calcato attraverso il mondo fin là dove le tracce si perdono e si confondono, tanto più le loro vestigia sembrano convergere verso un’unica fonte, dalla quale scaturiscono forme di approccio alla coscienza, alla natura e all’esistenza che rappresentano caratteri universali, fondativi e significativi della specie umana. Riportare all’evidenza le origini di queste esperienze arcaiche diffuse su vasta scala, significa ridisegnare davanti ai nostri occhi i caratteri di quella sapienza e di quelle pratiche (sophia e techne) che sono radice, sebbene dimenticata, anche della cultura occidentale. Come rileva Capra, ‹‹Tradizioni mistiche sono presenti in tutte le religioni ed elementi mistici si possono trovare in molte scuole della filosofia occidentale. La differenza tra il misticismo orientale e quello occidentale è che in Occidente le scuole mistiche hanno sempre avuto una funzione marginale, mentre costituiscono il filone principale del pensiero filosofico e religioso orientale.››[5]. E sono proprio queste tradizioni, perdute ai confini tra la storia e il mito, ad aver plasmato il mondo e ad aver gettato ‹‹le basi per le discipline […] che avrebbero fatto dell’Occidente quello che è ora››[6].

Il pensiero occidentale, necessitato dal bisogno di presentarsi come figlio e beniamino del logos, interpretato come discorso logico e ordine razionale e sorto come una luce improvvisa a rischiarare le lande brumose della religiosità oracolare e del mito poetico, ha finito per creare esso stesso un mito, il mito della filosofia.
Secondo questo racconto, l’apparire del logos nella storia del pensiero segnerebbe in modo tranchant una linea di demarcazione, un passaggio netto e senza ambiguità da un mondo arcaico ancora avvolto da una coltre religiosa e mitica verso una scienza filosofica fondata su speculazioni totalmente logiche, come ‹‹indagine razionale, cioè autonoma che non si appoggia a una verità già manifesta o rivelata ma soltanto alla forza della ragione, e in questa riconosce la sua unica guida››[7]. L’idea di un passaggio senza transizioni crea non poche difficoltà, come osserva François Châtelet: ‹‹In breve, l’idea di una genesi tranquilla che condurrebbe dall’immaginario al reale, dalla magia alla pratica […] dal desiderio al discorso è compromessa già dal momento in cui si pone la questione della sua articolazione. […] è significativa di una concezione ingenuamente progressista e semplificatrice del divenire del pensiero. La situazione, in ogni caso, è più complessa; ed è certo che non la si può regolare prendendo come punto di riferimento una progressione lineare che conduca dalla pre-ragione alla ragione realizzata…[…] s’impone un nuovo stile di discorso: vi si definisce un ordine che sarà designato ben presto come logico e vi si precisa una politica originale. […] Nondimeno […] proprio perché questa novità è presa nella rete storica della costituzione della polis, il filosofo resta un saggio, l’equivalente dello sciamano – dello stregone – che è in connivenza con dinamismi misteriosi…››[8].
Il primo riscontro del termine logos, ai primordi del pensiero filosofico greco, compare nei frammenti di Eraclito (VI-V secolo a.C.) con una valenza ben più ampia di una mera “coerenza speculativa”. Il filosofo di Efeso infatti con tale termine, all’interno della sua concezione del mondo come eterno fluire (‹‹Panta rhei››, tutto scorre, tutto trasmuta), intende ed indica ciò che costituisce l’unità dell’essere.
Tutta la variabilità e la molteplicità delle forme e dei fenomeni della natura che appaiono ai nostri sensi, sono in realtà riconducibili ad un unico principio fondamentale (archè): un principio immanente alla materia, invisibile ed eterno, perennemente mutevole, che Eraclito identifica con il fuoco. Questo fuoco non va inteso come l’elemento fisico, bensì come natura profonda ed essenziale di tutto ciò che esiste: degli uomini, della natura, dell’universo. Questo principio primo è il logos, la sostanza e la legge che garantisce l’unità del mondo, mentre con la sua mobilità presiede a tutti i mutamenti e le trasmutazioni che si manifestano nella materia.
Oltre che regolatore dell’ordine e della giustizia del mondo, il logos è anche il principio creatore della vita e in quanto tale è identificato con il divino: ‹‹L’Uno, l’unico saggio […] non vuole essere chiamato Zeus, se con Zeus si intende il dio dalle forme umane proprio dei Greci; vuole essere chiamato Zeus, se con questo nome si intende il Dio e l’essere supremo››[9]. Per poter cogliere nella sua realtà e natura questo divino logos creatore e ordinatore dell’universo, il filosofo di Efeso mette in guardia dall’illusione dei sensi che non riescono a cogliere e a conoscere l’unità dell’essere che sta al fondo di tutti e cambiamenti e le trasformazioni che percepiamo intorno a noi. La conoscenza del logos è raggiungibile per il sapiente solo attraverso una speciale intelligenza, intesa come atteggiamento interiore meditativo e profondamente religioso capace di esperire in maniera diretta e più profonda (intus-legere) la realtà nella sua verità e totalità.
Andando alla ricerca delle origini, in terra greca, di questa speciale intelligenza attraverso la quale il sapiente viene a conoscenza della natura essenziale della realtà del mondo, troviamo attestata in diverse fonti – sia letterarie che archeologiche – tra l’VIII ed il VI secolo la presenza di figure che riassumevano in sé un ampio repertorio di saperi e di pratiche aventi attinenza con la sfera del sacro, e non ancora specializzate in discipline specifiche: si tratta di ‹‹figure di veggenti, guaritori, taumaturghi ed evocatori di spiriti, morfologicamente assimilabili agli sciamani eurasiatici, in grado di prevedere il futuro, guarire, compiere purificazioni, esorcismi, adorcismi e sacrifici, entrando in contatto con l’aldilà››[10]; tali figure, al di là delle specificità personali, mostravano di possedere alcuni tratti comuni che ne qualificavano l’appartenenza ad una tradizione che non rientrava nel culto organizzato e ufficiale della religione degli dei del pantheon greco; essi afferivano piuttosto ad una sapienza esoterica ed iniziatica ben più remota, ovvero quella forma di esperienza pre-religiosa universale riconducibile ad una sorta di animismo sciamanistico, le cui tracce sono riscontrate un po’ ovunque e che sembra essere giunto in Grecia attraverso i contatti con le regioni traco-scitiche e uralo-altaiche.

Il termine col quale più frequentemente ci si riferiva a queste figure è quello di iatromante; termine assai efficace in quanto pone subito in evidenza le due principali funzioni che essi svolgevano: la funzione di veggente e la funzione di guaritore. Tali funzioni erano intrinsecamente connesse, dal momento che la capacità dello iatromante di operare guarigioni (iatrica) era direttamente dipendente dalle sue doti di chiaroveggenza (mantica). Da ciò si evince che la fonte delle sue facoltà e della sua efficacia operativa avesse natura e origine sovrumana: ad essa egli accedeva attraverso esperienze estatiche condotte nel corso di speciali stati di coscienza modificata, ottenuti grazie a specifiche tecniche e ad un rigoroso tirocinio spirituale. Producendosi questi stati di estasi, lo iatromante usciva dalla condizione mortale per accedere ad una diversa dimensione dell’esistenza, popolata da divinità, entità demoniche, spiriti di defunti, dove si trovano, come scrive Esiodo nella sua Teogonia a proposito dell’Ade, ‹‹le sorgenti e la fine di tutte le cose››.
Attraverso questo “viaggio” che lo mette in contatto con la dimensione del sacro, lo iatromante, al pari dello sciamano, otteneva conoscenza e poteri straordinari. Superando la soglia tra visibile e invisibile, gli era offerta la contemplazione e la comprensione delle leggi che regolano e correlano i diversi livelli di cui la realtà è composta. Secondo questa prospettiva, malattia e calamità erano spesso causate da rotture e disarmonie nel rapporto tra il mondo umano e i mondi spirituali, e dall’infrazione delle leggi che ne governano il delicato equilibrio; lo iatromante era dunque in grado di cogliere i sintomi della malattia come segni visibili dell’invisibile, connettendoli ad un ordine occulto e latente. In questo modo, la capacità di cogliere l’ordine profondo della realtà, viaggiando all’interno di quell’unità dell’essere in cui passato, presente e futuro – così come uomo, natura e spirito – coesistono e si compenetrano, conferiva allo iatromante la preveggenza, in grazia della quale prevedeva la prognosi della malattia e l’efficacia della cura.
La conoscenza del passato, del presente e del futuro, e con essa la capacità di agire operativamente sullo scorrere del tempo così da poter rimuovere le cause della malattia, implicano che sia possibile abolire il tempo e avere un certo controllo sul flusso temporale. Gli esordi di questa credenza vengono rinvenuti da Mircea Eliade, e dettagliatamente approfonditi in uno studio[11] dedicato a questi temi, nello sfondo mitico e nelle pratiche degli uomini e dell’età del Ferro, e in generale di quei primi uomini che hanno avviato l’estrazione dei minerali e la lavorazione dei metalli.
Essi consideravano il mondo naturale come un immenso organismo vivente, all’interno del quale tutto ciò che ne è parte – non solo gli esseri umani, gli animali e le piante, ma anche le pietre e i minerali – è un essere animato, frutto di un concepimento e di una evoluzione: ogni cosa nasce, cresce e si trasforma. Secondo questa concezione della realtà, le sostanze minerali partecipano della sacralità della terra: esse “crescono” nel suo ventre, così come gli embrioni si sviluppano nel ventre della donna. Dunque il minatore che estrae i minerali dalla terra, il metallurgo e il fabbro che li trasformano attraverso il fuoco, svolgono di fatto un’azione ostetrica, collaborano con la natura e la aiutano a partorire più in fretta: in virtù del fuoco trasmutano i minerali fanciulli in metalli adulti, accelerando il ritmo di crescita e in questo senso sostituendosi all’azione del tempo.

L’idea infatti è che i minerali, se si lasciasse loro il tempo di crescere indisturbati, crescerebbero da soli in seno alla madre Terra. Ancora meglio, i “veri metalli” non esiterebbero a trasformarsi in oro se li si lasciasse crescere indisturbati per qualche migliaio d’anni: poiché la trasformazione naturale dei metalli in oro è un fatto iscritto nel loro stesso destino, e il fine ultimo della natura è portare a compimento il regno minerale, dal momento che la natura tende alla perfezione. Dunque è la nobiltà dell’oro il vero frutto maturo; gli altri metalli sono vili perché non hanno ancora raggiunto lo stadio di completa maturazione.
Una tale credenza nella crescita dei metalli, largamente diffusa tanto in Oriente come in Occidente – e ancora creduta in Europa fino al XVII secolo – viene indicata da Eliade anche a fondamento delle dottrine e delle pratiche alchemiche, tanto dell’alchimia mistica che dell’alchimia operativa. In un testo alchemico del XVIII secolo è scritto: ‹‹Se non esistesse alcun impedimento esterno che si opponesse alla realizzazione dei suoi disegni, la Natura compirebbe, senza alcuna eccezione, tutte quelle produzioni che le sono proprie…Per questo noi dobbiamo pensare la nascita dei metalli imperfetti alla stregua della generazione di aborti e di mostri, la quale si verifica solo per il fatto che la Natura viene sviata nelle proprie azioni e perché incontra delle resistenze che le serrano le mani e degli ostacoli che le impediscono di agire con quella regolarità che le è propria…Da ciò deriva anche il fatto che, per quanto essa non voglia produrre che un solo metallo, sia costretta a generarne molti…Ma l’oro soltanto è la creatura dei suoi sogni. L’oro è il suo figlio legittimo, perché solo esso è il risultato della vera produzione››[12].
In tutti i loro scritti gli alchimisti, in Europa così come in Cina, in India, nel mondo islamico, in Egitto e nel Vicino Oriente, fanno riferimento a metodi, ad esperimenti, a ricette che si prefiggevano di ottenere la trasmutazione dei metalli vili in oro alchemico. Affinché questo risultato fosse realizzabile, era necessario ottenere un principio reagente (una quintessenza) capace di attivare il processo di trasmutazione della materia; tale principio ha ricevuto nomi diversi a seconda degli autori e delle opere, il più noto dei quali è pietra filosofale. L’obiettivo più concreto e operativo della Crisopea (la fabbricazione dell’oro) poteva coincidere, o viaggiare in parallelo, col conseguimento di rimedi in grado di procurare la guarigione delle malattie e il prolungamento indefinito della vita umana, o addirittura concedere l’immortalità: l’Elixir o la panacea, il farmaco universale.
I fini della ricerca alchemica, tanto in Oriente come in Occidente, rivelano sullo sfondo una precisa struttura mitico-religiosa. Sono pressoché universali i miti che evocano una sorgente, un albero, un frutto o qualsiasi sostanza in grado di assicurare longevità, guarigione, ringiovanimento, immortalità. Nella letteratura vedica il soma, la bevanda sacra degli dei, è ottenuta da una pianta la cui preparazione e libazione costituisce il momento centrale della liturgia. Nel mondo iranico mazdeo il libro dell’Avesta parla a più riprese del “santo haoma, che tiene lontano la morte”. La caldaia dell’immortalita è invece un elemento mitico indoeuropeo, che ritroviamo tanto nella tradizione celtica quanto nella tradizione vedica.
A questo repertorio di immagini mitiche appartiene anche una sostanza il cui nome in Grecia appare per la prima volta nell’Odissea. Mentre si apprestava a liberare i compagni trasformati in porci dalla maga Circe – la figlia del Sole, che abitava in una valle ricca di erbe – ad Odisseo appare il dio Hermes, il messaggero degli dei. Il dio strappa dal terreno una pianta particolare e gliela porge: ‹‹[…] mi dava l’erba l’Argheifonte, / da terra strappandola, e la natura me ne mostrò››[13]. Ad essere tradotta con natura è la parola greca physis, e quale sia la natura di questa pianta, efficace contro gli incantesimi di Circe, ci viene immediatamente spiegato dal testo. ‹‹Strapparla e difficile / per le creature mortali, ma gli dèi tutto possono››. Gli effetti della physis sono visibili a tutti, ma essa rimane in genere nascosta agli uomini: può soltanto essere oggetto di una rivelazione divina.
Per quanto ci è dato sapere dalle antiche testimonianze, il primo ad utilizzare il termine physis è stato Eraclito. Ma già tra il VII e il VI secolo a.C. i primi filosofi riconosciuti come tali e nativi della città di Mileto, colonia greca situata sulla costa ionica dell’odierna Turchia, si erano dedicati alla ricerca e all’indagine di quel principio primo ed essenziale che è origine, sostanza e vita di tutte le cose. I filosofi milesii dagli autori successivi, a partire da Aristotele, saranno chiamati filosofi della physis (“physikoi”, filosofi della natura), intendendo per natura proprio questo principio che costituisce e anima il mondo; costoro saranno chiamati anche ilozoisti, proprio per la loro concezione che il mondo fosse un grande organismo vivente, animato da un principio vitale ed eterno identificato con il divino. Come afferma Talete, il primo in ordine cronologico dei filosofi di Mileto, ‹‹Il mondo è pieno di dèi››.
La città di Mileto era all’epoca un fiorente centro commerciale e culturale, dove i contatti e gli scambi tra il pensiero greco e il mondo orientale erano frequenti e fecondi, e le concezioni cosmologiche dei primi filosofi naturalisti testimoniano quantomeno una contiguità con talune credenze delle più antiche tradizioni del Vicino Oriente e dell’India. Risulta quantomeno degno di attenzione riscontrare come alla base del mito della filosofia occidentale troviamo un elemento di natura poetica e mistica.

L’aver riconosciuto una familiarità dell’alchimia con talune credenze primordiali delle prime organizzazioni umane (estrattori di minerali e metallurghi), e con lo sfondo mitico-religioso diffuso di varie dottrine esoteriche o mistiche – in Cina il Taoismo; in India, lo Yoga ed il Tantrismo; nell’Egitto ellenistico, la Gnosi; nei paesi islamici, le scuole mistiche ermetiche ed esoteriche; nell’Occidente medievale e rinascimentale, l’Ermetismo, il misticismo cristiano e la Qabbalà – ci permette di comprendere le ragioni genetiche della posizione eminente occupata nella storia della nostra cultura, e l’interesse e la fascinazione profonda esercitati ancora oggi dall’alchimia, che ampio spazio ha trovato anche nell’ambito di una vasta e variegata letteratura ad essa dedicata.
A tale ambito appartiene e fa riferimento anche il libro la cui lettura mi ha condotto a svolgere le riflessioni che sono oggetto di questo articolo, BREVE STORIA DELL’ALCHIMIA. DAGLI ALBORI AL PENSIERO JUNGHIANO: UNA SINTESI STORICA, scritto da Stefano Valente e pubblicato nel 2019 per la Graphofeel edizioni. Agile manuale di gradevole lettura anche per chi si avvicina alla disciplina senza conoscenze specifiche pregresse, il libro possiede al contempo le doti della semplicità e dell’efficacia; caratteri tanto più pregevoli, trattando di un sapere che ha fatto della vastità e complessità dottrinale e dell’oscurità del linguaggio i suoi tratti più qualificanti.
Come ammette lo stesso autore nell’introduzione dell’opera, è impensabile ambire all’esaustività quando si tratta di alchimia. Cercare di raccogliere un indice tematico, bio-bibliografico e storico il più completo sull’alchimia e i suoi protagonisti comporterebbe uno sforzo e un interesse enciclopedico, per altro già tentato in altre iniziative editoriali, di difficile fruibilità per il lettore non specialista, e del resto lontano dalle intenzioni di questa pubblicazione. Infatti la difficoltà nel reperire testi, di base nei contenuti e nel linguaggio, pensati per colmare lo scarto tra chi non sa e chi già sa qualcosa, rappresenta una difficoltà per chi si avvicina ad un nuovo sapere senza poter dare ancora niente per scontato. Breve storia dell’alchimia si propone come il vano d’accesso alla materia, in cui sono fornite alcune conoscenze e informazioni che costituiscono i prolegomeni per passare poi alla lettura e allo studio di trattati più impegnativi. Per chi poi è solamente curioso delle suggestioni più fantasiose che l’immaginario alchemico sa evocare, il libro è strutturato in una serie di storie, di personaggi e di aneddoti raccontati con la piacevolezza della narrazione.
Attraverso il linguaggio più accessibile, l’autore propone una ricostruzione cronologica dell’alchimia dalle sue origini rinvenute attraverso le fonti orientali, passando per il suo approdo in Europa mediante il tramite della cultura araba e alessandrina, fino agli sviluppi più recenti dell’occultismo moderno e agli sviluppi della psicologia analitica di Carl Gustav Jung. Tra le pagine del libro incontriamo così figure che risalgono a tempi in cui ancora storia e leggenda si compenetravano, come quelle del persiano Geber, che la tradizione pone come fondatore dell’alchimia araba, e del dio-profeta Ermete Trismegisto, le cui dottrine rinvenute nella letteratura ermetica a lui riferita avranno una influenza straordinaria sul neoplatonismo rinascimentale; conosciamo la vicenda straordinaria del libraio parigino Nicolas Flamel, modello esemplare di alchimista del Trecento, del quale si dice che sarebbe entrato in possesso della pietra filosofale dopo aver tradotto il significato di sette simboli misteriosi contenuti in un antichissimo trattato, così come ci viene introdotta la figura eminente del medico e filosofo alchemico svizzero Paracelso, che con i suoi studi e l’applicazione operativa dei principi dei minerali e degli estratti delle piante nella cura delle malattia ha rivoluzionato la medicina del Cinquecento, anticipando nel Cinquecento un modello di medicina integrale applicata all’uomo; abbiamo la possibilità di leggere il testo della Tabula Smaragdina, autentica summa sintetica della dottrina ermetica, e le iscrizioni istoriate sulla “porta magica” della secentesca Villa Palombara a Roma, recanti i simboli e le formule della Opera Alchemica. Molto spazio viene dedicato dall’autore al Seicento e ad alcune delle sue figure più notevoli – Caterina di Svezia, che dopo aver abdicato al trono si stabilirà a Roma dove col suo cenacolo diventerà punto di riferimento della vita culturale e intellettuale di quel periodo; il nobile e avventuriero milanese Giuseppe Francesco Borri; Athanasisus Kirchner e il Collegio Romano; personaggi eterogenei per estrazione, per formazione culturale e per visione del mondo, il cui interesse trasversale per l’alchimia, al contempo oggetto di pubbliche condanne e di segrete ambizioni, dimostra quale influenza ancora esercitasse all’interno delle contraddizioni e delle credenze dell’Europa nel momento in cui si avviava la rivoluzione del pensiero scientifico.
Come osserva anche Eliade: A partire dal Rinascimento tanto l’antica alchimia operativa quanto le sue reinterpretazioni mistiche e cristologiche seguenti svolsero un ruolo di primo piano nell’ambito di quella straordinaria metamorfosi culturale che culminò nel trionfo delle scienze naturali. La speranza di riscattare l’uomo e la natura attraverso l’opus alchymicum non era altro se non il prolungamento di quella nostalgia di una renovatio radicale che assillava il cristianesimo occidentale a partire da Gioacchino da Fiore.››[14]. In sostanza si può asserire che l’alchimia, come processo di trasformazione e insieme come linguaggio in grado di tradurre e di esprimere tale processo, abbia saputo incardinarsi in questa attesa di un rinnovamento spirituale – aspirazione ancora incarnata nel Settecento dai tentativi di una riforma totale della cultura propugnata dai Rosacroce – che ha saputo ispirare la reinterpretazione dell’opus alchymicum secondo il nascente pensiero razionale e scientifico della chimica.

Un nuovo tipo di ricerca perseguito dalle scienze naturali, fondato sulla filosofia chimica e sulle scienze occulte porta l’attenzione all’approfondimento dei procedimenti alchemici attraverso esperimenti condotti in laboratori attrezzati, mentre lo scambio continuo e sistematico dei dati fra gli scienziati avrà come risultato la nascita di numerose accademie e società scientifiche. Ciò nonostante il mito della vera alchimia non cesserà di influenzare i protagonisti della rivoluzione scientifica. Sappiamo che anche Newton si è occupato in modo approfondito di alchimia (conducendo esperimenti alchemici e costruendo forni per fondere i metalli), e tanto è vero che il fondatore della fisica meccanica moderna non rigettava l’antica tradizione che, quando pubblica i Principia, i suoi oppositori gli rimproverano con veemenza il fatto che le forze di cui parla sono forze occulte, che assomigliano molto alle simpatie e alle antipatie segrete che si trovano nella letteratura occultista rinascimentale.
In buona sostanza, si può dire che l’alchimia ha portato a compimento un progetto molto antico, avviato nel momento in cui i primi uomini hanno intrapreso un lavoro di trasformazione della natura. Il concetto di trasmutazione alchemica è espressione di quella credenza immemoriale secondo la quale l’uomo collabora con la natura accelerando la crescita dei metalli attraverso il fuoco, precipitando il loro processo di maturazione e trasmutandoli i metalli vili in metalli nobili, sino alla perfezione dell’oro. Ma non solo. L’Elixir conferisce la perfezione all’esistenza umana stessa, concedendole salute, eterna giovinezza, longevità e addirittura l’immortalità. Attraverso il processo di trasmutazione alchemica l’uomo diviene creatore, capace di rigenerare la natura, e signore del tempo.
Da un certo punto di vista anche dopo l’esilio dalla cultura ufficiale dell’alchimia, che ha proseguito il suo cammino nel segreto dell’esoterismo più carsico, i suoi valori e i suoi ideali sono sopravvissuti nell’ideologia trionfante del XIX secolo, cristallizzati nel mito di un progresso illimitato. Pur subendo un radicale processo di secolarizzazione, il mito del perfezionamento e della redenzione della natura si è trasfigurato nei sogni prometeici delle società industrializzate che hanno come loro fine la trasformazione della natura dietro la spinta del progresso tecnologico e delle scienze sperimentali; il sogno di sostituirsi al tempo viene formalmente raggiunto attraverso l’accelerazione temporale dei processi di preparazione e lavorazione, in fabbrica e in laboratorio, di sostanze di sintesi che la natura avrebbe impiegato anni per produrre. E il sogno supremo della scienza rimane la creazione sintetica della vita.
Nelle società tradizionali però il lavoro assumeva una dimensione sacrale, rituale e religiosa. Ora, nelle società industrializzate moderne, lavorare diviene un’attività completamente secolarizzata. E per la prima volta nella storia l’uomo si è sostituito alla natura, sostituendo il tempo della natura con il tempo della produzione, ma senza poter più disporre di quella dimensione sacra che teneva in armonia natura e cultura, natura e società, l’uomo biologico con l’uomo culturale, e che rendeva sopportabile il lavoro offrendo alla crisi una cornice di senso e una via alla sua risoluzione.
[1] P. KINGSLEY, Nei luoghi oscuri della saggezza – Marco Tropea Editore, 2001
[2] P. KINGSLEY, Ibidem
[3] E. SCHOURÉ, I grandi iniziati – Newton Compton Editori, 1990
[4] P. KINGSLEY, Ibidem
[5] F. CAPRA, Il Tao della fisica – Adelphi Edizioni S.P.A., 1982
[6] P. KINGSLEY, Ibidem
[7] N. ABBAGNANO, Storia della filosofia vol. I – UTET, 1989
[8] F. CHÂTELET, Dal mito al pensiero razionale, in P. AUBENQUE, J. BERNHARDT, F. CHÂTELET, La filosofia pagana – Rizzoli Editore, 1976
[9] E. BODRERO, Eraclito, testimonianze e frammenti – 1910, F.lli Bocca
[10] E. NONVELLER, Figure sciamaniche nel mondo greco arcaico, in Le origini sciamaniche della cultura europea (Quaderni di studi indomediterranei vol. VII) – 2014, Edizioni dell’Orso
[11] M. Eliade, ARTI DEL METALLO E ALCHIMIA – 1980, Bollati Boringhieri editori
[12] Bibliothèque des Philosophies chimiques – Parigi, 1741
[13] OMERO, Odissea, X,303 – 1989, Giulio Einaudi Editore
[14] M. Eliade, IL MITO DELL’ALCHIMIA – 2001, Bollati Boringhieri editore
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