R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Non è difficile voler bene alla figura di Leandro Barbieri, detto Gato, sassofonista argentino ch’ebbe a cuore, oltre al jazz, destini e sofferenze del popolo latino, amato con passione umana e politica attraverso l’indimenticabile sonorità del suo strumento. Del resto lo stile di un musicista si tratteggia soprattutto percorrendo le sue personali caratteristiche sonore e il sax di Barbieri, a questo proposito, è realmente inconfondibile. Anche se in questo Ojos de Gato del pianista Giovanni Guidi il sassofonista James Brandon Lewis ne ricalca l’impronta stilistica proponendosi con un suono smaliziato, a tratti molto simile all’originale. Personalmente sono legato alla figura del “Gato” sia per gli innumerevoli ascolti “collettivi” dedicati ai suoi dischi pubblicati dalla Impulse! dei primi anni’70 – erano anni d’intensa lotta politica condotta spesso improvvidamente ma con grande passione – sia per il romantico decadentismo della colonna sonora di Ultimo tango a Parigi, film reso mitico anche perché fu l’ultimo esempio di accanimento censorio della storia italiana. Guidi, dall’alto della maturità raggiunta come pianista, si propone con una serie di brani tutti autografi, previa un’identificazione carica di sentimento, non tanto con lo stesso Barbieri in quanto esecutore, con cui non condivide evidentemente l’utilizzo del medesimo strumento, ma con il suo sentire, con quella vitalità e insieme malinconica allegria venata di rabbia polverosa che ha quasi sempre attraversato la sua produzione discografica. Guidi ci mette molte cose, oltre all’Emozione. Ci mette la Terra, la “Lucha”, il periodo free, l’esuberanza etnico-ritmica, l’Italia, la Francia, i provocatori “murales” colorati d’ingenuità che adornavano i corridoi di quella musica, ormai dissoltasi nella diacronia degli avvenimenti ma ancora ben persistente nella memoria del jazz. Ci mette pure qualche legame personalissimo, accomunando il proprio vero padre scomparso da poco con quello putativo rappresentato dallo stesso Barbieri.

Inoltre Guidi ha saputo scegliersi, per questo progetto, degli idonei compagni di viaggio che evidentemente si sono sentiti vicini quanto lui alla personalità del musicista latino. Il già citato James Brandon Lewis al sax che ha saputo coglierne gli estremi sonori e Gianluca Petrella a incrociare il brontolio ruvido del suo trombone con il fiato di Lewis. Poi c’è la ritmica costituita da Brandon Lopez al contrabbasso – che qui limita il suo portamento sperimentale adattandosi alle esigenze del caso – Chad Taylor alla batteria – che ha fatto spesso coppia con lo stesso Lewis – coadiuvato dal percussionista Francisco Mela. Guidi limita i suoi interventi all’essenziale, lasciando ai fiati e alle ritmiche le luci del palcoscenico, esponendosi in pochi casi come nella bellissima dedica a Laura, seconda moglie di Barbieri.

Si comincia con una classica entrata alla “Gato”, un conglomerato sonoro ribollente di promesse da cui, in questa Revolucion, trae origine un riff pianistico che sostiene un dialogo modale tra sax e trombone. Mentre la tastiera morde il freno si avverte tutta la tensione centrifuga della musica, riottosa a farsi contenere all’interno di un limite definito. Latino America s’incentra su lungo assolo iniziale di Lewis con una colorata percussività che l’accompagna fino al punto in cui subentra il piano con una serie di impressioni arpeggiate. Da qui in poi parte un tema, costruito proprio in ossequio a quelle che avrebbero potuto essere le idee personali di Barbieri, con un sax che più simile non si sarebbe potuto ottenere. La parte del leone la fa però Petrella svolgendo un ordinato assolo in completa sintonia con l’intenzione del brano. Buenos Aires si serve anch’esso di un tema cantabile, con un ritmo quasi danzante. Il trombone si distende allargandosi sulla base ritmica in un assolo privo d’intervento pianistico. Quando però Guidi fa il suo ingresso è la volta del sax a far sentire la sua voce ma non in solitaria, com’era appena successo con Petrella, ma con il trombone che non molla la presa e che duetta insistentemente con Lewis. Il brano termina insolitamente per mezzo di un lungo procedere delle percussioni verso Ernesto, la cui dedica è chiaramente sott’intesa. La traccia inizia con una languida beguine in re minore, il tema è gonfio di nostalgia, il sax è calato in pieno nella sua parte e l’entrata del piano mette i brividi. Per i miei gusti è il brano più bello dell’album. Ottimo l’intreccio dei fiati e il controcanto innescato da Petrella. Sul filone della malinconia si gioca inizialmente Padres, con dedica comune al padre naturale e a quello artistico. Il tema, dall’aspetto popolaresco e sostenuto dai fiati che ricordano da vicino certi momenti della Liberation Music Orchestra – con cui Barbieri collaborò nel’69 – è scandito con profilo netto fino alla metà della durata del brano stesso che si chiude anche questo in maniera poco solita, percussioni e contrabbasso archettato quasi in continuità con l’inizio del brano seguente.

Manhattan s’annuncia in un conglomerato free dove il sax vola libero ricordando le collaborazioni con Abdullah Ibrahim (aka Dollar Brand) e Carla Bley. Note notturne e sperimentazioni, laddove il jazz stava cambiando pelle in quel fertile e convulso periodo che va grossomodo dal ’68 al ’72.  Tutt’altra atmosfera nella rilassata Roma 1962. Sono gli anni della “Dolce Vita” dove Barbieri entra in contatto con Enrico Rava, Franco D’Andrea e Cinecittà, quando la sua prima moglie Michelle diventa segretaria di produzione di Bernardo Bertolucci diversi anni prima di Ultimo tango. Nel ’63 sarà proprio lo stesso Barbieri a suonare l’assolo di sax in Sapore di sale di Gino Paoli. Guidi ferma il tempo in un francobollo di ricordi con una ballata sensuale dalla voce felpata con un bel dialogo a tre voci tra piano, trombone e sax. Paris Last è pieno free, sconnessamente contorto ma che per fortuna dura poco e tutto sommato non mi pare certo brano essenziale all’economia dell’album – leggi: se ne poteva anche fare a meno… Cafè Montmartre, pur strutturalmente e formalmente libero, è brano più incisivo del precedente e se vogliamo più rappresentativo del periodo parigino di Barbieri quando egli incrociò il suo sax con la cornetta di Don Cherry e il drumming di Aldo Romano. Un bepop serratissimo viene inizialmente condotto all’unisono dai due fiati e dal piano, per poi liberarsi dalle catene con la tastiera di Guidi che vola letteralmente in aria, accanto ad una ritmica implacabile che artiglia lo stomaco. Si chiude con la stessa modalità iniziale, senza un attimo di respiro. Arriviamo al brano più “romantico” dove possiamo ascoltare il piano di Guidi nel pieno del suo lirismo e leggerezza, nella traccia dedicata a Laura, l’ultima compagna di Barbieri. Il brano di chiusura porta la dedica al figlio di Gato, Christian. Si tratta di un brano allegro, vitale, in cui basso e batteria hanno da divertirsi, aiutando a chiudere l’album con un suggello positivo, una serenità che, pur non essendo fondamentalmente mai mancata, lascia alle spalle ogni ricordo malinconico.

Un album senza intoppi didascalici, condotto con sincera chiarezza d’intenti. Non un epicedio ad memoriam ma un’identificazione dettata dal sentimento e dalla stima verso chi ha contribuito a scrivere gran parte della storia del jazz di questi ultimi anni.

Tracklist:
01. Revoluciòn
02. Latino America

03. Buenos Aires
04. Ernesto
05. Padres (a Papà e Gato)
06. Manhattan (a Carla e Dollar)
07. Roma 1962 (a Enrico e Franco)
08. Cafè Montmartre (a Aldo e Don)
09. Paris last
10. Laura
11. Ojos De gato (a Christian)