R E C E N S I O N E


Recensione di Stefania D’Egidio

Il 10 settembre è la data scelta per la pubblicazione dell’ipnotico Hope is Leaving You, secondo lavoro in studio della band post-rock di Chicago Starless, con membri passati e attuali di Beak, Timeout Drawer e Our Earth is A Tomb. Suoni distorti e pesanti che si intrecciano con malinconiche armonie corali, accordi pulsanti e abissali, alternati a ritmiche implacabili, strofe suadenti e poi improvvisi ululati di chitarra. Ogni traccia funge da viaggio epico, grazie agli arrangiamenti che attraversano, come raggi di luce, paesaggi di inquietante pericolosità in cui potenti urla di lamento cercano assoluzione da un universo indifferente.

Il gruppo nasce nel 2014 dall’intuizione di Jon Slusher e Jessie Ambriz, entrambi chitarra e voce, e arriva alla formazione attuale due anni dopo, con l’ingresso di Quinn Curren alla batteria e Alan Strathmann al basso, tutti reduci da precedenti esperienze musicali e accomunati dalla voglia di esprimere con un sound tutto dark il peso di questo mondo caotico. L’album è stato registrato nel corso del 2019 all’Electric Audio and Palisades di Sanford Parker e mixato nell’Hypercube di Parker con un mixaggio affidato a Colin Jordan al The Boiler Room. Rispetto a Deadly Light del 2016 si presenta più dinamico, con testi concentrati interamente sulla condizione umana, sulle forze cieche della natura che, a volte, si rivela, nei confronti dell’uomo, più matrigna che madre. Versi che rimandano a battaglie epiche (Helvetii), ad angeli caduti dal cielo con le ali spezzate (Devils) e all’eterna lotta tra bene e male (Citizen). Suoni a volte tribali, con basso e batteria talora in contrappunto, talora perfettamente all’unisono, il violoncello di Alison Chesley che presta paesaggi sonori cinematografici in due canzoni post apocalittiche (Forest, il brano più breve, tutti gli altri sforano abbondantemente i sei minuti, e Hunting with Fire, unico con la voce femminile nei cori e un pathos in crescendo dato dal ritmo sempre più martellante al passare dei secondi).

In totale sette brani belli lunghi e “tosti” in cui la band dimostra di eccellere nel trucchetto post-rock dell’intro pulito che ti prepara appena all’uragano che si abbatterà su di te, in Pendulum, ma anche in Devils, dove addirittura fa la comparsa un organo da chiesa; per il resto atmosfere cupe, da gotic-metal o doom-metal, chitarre acide e distorte, un basso vulcanico e percussioni in stile plotone di esecuzione, che erigono nel complesso un muro di suono granitico.

La resa finale è un album bello corposo, in grado di mantenere alta l’asticella per tutta la durata senza alcun calo di tensione.

Voto: 10/10

Tracklist:
01. Pendulum
02. Helvetii
03. Forest
04. All the Winter
05. Devils
06. Citizen
07. Hunting with Fire