R E C E N S I O N E
Recensione di Mario Grella
Iniziamo con una confessione: ho sempre avuto un debole per i dischi (sì, insomma, una volta si chiamavano dischi, ed io continuo a chiamarli così), che al posto dei titoli contengono numeri o serie. Parte quindi con un piccolo vantaggio Space 1.8 dell’arpista Nala Sinephro. Ma appena fatta partire la prima traccia che si intitola Space 1, il vantaggio semantico-linguistico dei titoli, è davvero irrilevante di fronte alla straordinaria notazione musicale che ci risucchia (o ci fa sprofondare), in un mondo “altro”, fatto di risonanze profonde, create dall’arpa di Nala e dal circostante mondo vagamente elettronico-oriental-equatoriale, fatto di suoni da foresta pluviale; ricordiamo che Nala Sinephro è originaria della Martinica, ed è una cittadina belga che vive a Londra.

A rassicurarci che siamo in presenza di un disco di genere “jazz” basta l’attacco dei primi accordi del piano di Lyle Barton, subito seguito dal sax profondo, molto soffiato e forse anche un po’ troppo “pettinato” di James Mollison, che maneggia lo strumento come ci si aspetta che un sassofonista jazz maneggi lo strumento, ma a parte questi insignificanti dettagli, la materia sonora pacata, profonda, risonante, è di grandissima qualità. E molto originale è l’inserto elettronico nel finale che mai ci si sarebbe aspettato in un pezzo come Space 2, tutto velluto e “blue note”. A ricordarci che non tutto andrà per il meglio, ovvero che lo spazio per un ascolto rilassato è estremamente limitato, arriva Space 3, tutto giocato su una strumentazione elettronica e, grazie alle percussioni di Edward Wakili-Hick, è ricco di echi, ritorni seriali e ronzii mai disturbanti, ma sempre inquieti. Con Space 4 si ritorna all’interno di un utero sonoro fatto di dolci accordi d’arpa e “coccole saxophoniche”, dove le asperità sembrano dimenticate e l’abbandono è una necessità impellente, magari evocativa di altri sax che Nubya Garcia sa evocare a meraviglia. Va ricordato che il pezzo nasce al cospetto di un reperto di arte antica, l’immagine della dea Ishtar vista attraverso gli occhi di un grande artista primitivo-contemporaneo quale fu Jean-Michel Basquiat. Nel quinto spazio (Space 5), viene a maturazione dialettica tutto quanto ascoltato fin qui. Effetti “ambient” elettronici, sax e arpa, sembrano finalmente andare a comporre un “pattern” sonoro di grande impatto. Un’atmosfera che prosegue anche in Space 6 con un sax ormai decisamente “di ricerca e meno ricercato”, con una serie ripetitiva attorno alla quale si va a costruire un’ipnotica spirale elettronica. Ma il tesoro nascosto di questo lungo e intenso viaggio, attraverso sonorità che sanno di fresco, è certamente Space 8. Una sinusoide sonora, con costanti variazioni, tutta o quasi giocata sull’elettronica e introdotta da un afflato di sax e da una spolverata di arpa che poi sembrano dissolversi in una musica che si fa cosmica. Disco di magnifico e sofferto debutto e nato da una terribile malattia, sconfitta forse anche grazie alla musica, e che musica!
Tracklist:
01. Space 1
02. Space 2
03. Space 3
04. Space 4
05. Space 5
06. Space 6
07. Space 7
08. Space 8
Rispondi