R E C E N S I O N E


Recensione di Stefania D’Egidio

Senza pensarci troppo, il mio amore per la musica nasce proprio con loro, i Duran Duran, quando rubavo a mio fratello il piccolo mangianastri Grundig per ascoltare Seven and The Ragged Tiger. In barba ai critici musicali che ne avevano pronosticato una morte rapida e indolore, io, con l’entusiasmo di una bambina di sette anni, sapevo già che la nostra storia d’amore sarebbe durata a lungo, tanto da farne la colonna sonora della mia vita, e come una moglie fedele sono andata dritta per la mia strada, anche quando, dopo il successo planetario di Arena, il gruppo sembrava andare alla deriva, dapprima con la separazione dei membri nei progetti paralleli The Power Station e Arcadia, poi con l’uscita di Roger e Andy. Gli anni ’90 tra alti e bassi, in realtà più bassi che alti, eccezion fatta per The Wedding Album, nulla di scandaloso, erano gli anni del grunge, si preferivano suoni nudi e crudi, poi nuova linfa vitale con l’arrivo del secondo millennio, la reunion e i successi di Astronaut e dei più recenti All You Need is Now e Paper Gods.

A chi, in passato, vedeva in loro solo una boy band dal bel faccino ho sempre risposto che dietro c’era anche tanta sostanza, ma, soprattutto, la capacità di anticipare sempre i tempi e le mode: i primi a capire che dalle ceneri del punk dovesse nascere qualcosa di più solare, di qui l’uso di synth, ritmi sostenuti e ritornelli orecchiabili, che restassero impressi nella mente, i primi a intuire l’importanza del videoclip, con l’avvento di MTV, i primi a dare la giusta importanza al look, da degni fans di David Bowie quali erano. Il resto ce lo racconta la cronaca: non si vedevano scene di isteria collettiva dai tempi dei Beatles, a Sanremo ancora se le ricordano…Certo per il quarantesimo anniversario noi sfegatati avremmo desiderato ben altri festeggiamenti, già pregustavo una settimana a Ibiza tra concerti e meet and great, ma in mezzo c’è stata una pandemia e, così, ci siamo dovuti accontentare di seguire i tutorial di John in rete e di assaporare il nuovo album, Future Past, a spizzichi e bocconi sui social. Finalmente il 22 ottobre è arrivato, lo aspettavo come si aspettano i regali la notte di Natale, e il preorder stavolta ha funzionato: mentre scrivo ho l’album tra le mani, con la sua copertina coloratissima, da un lato il book dei credits, dall’altra il cd; scorrendo la tracklist noto che ci sono dodici tracce, qualcosa in più rispetto ai lavori del passato. Tante le collaborazioni importanti, da Graham Coxon, il chitarrista dei Blur, al genio della disco Giorgio Moroder, da Tove Lo alla rapper inglese Ivorian Doll, dalle giovanissime giapponesi Chai fino a Mike Garson, nella splendida melodia di pianoforte di Falling, il brano di chiusura. Non poteva mancare la chitarra dell’amico Mark Ronson, in Wing, un pezzo che starebbe benissimo nella colonna sonora di 007, degno erede di A View to A Kill, nè Erol Alkan, già produttore in Paper Gods. Novità assoluta invece la comparsa nei cori di Saffron Le Bon, la figlia di Simon. Titolo azzeccatissimo, perchè l’album sprigiona tutta l’energia degli esordi, ma con un piede nel futuro; apre le danze Invisible, il primo singolo buttato in rete con un video rivoluzionario, creato dall’intelligenza artificiale, e si capisce subito di che pasta è fatto Future Past: sezione ritmica da paura, con il basso di John e la batteria di Roger che si rincorrono.

Alzate i bassi perchè la successiva All Of You è tutta da ballare con il volume a palla; al terzo posto la mia preferita, Give It All Up con Tove Lo, non riesco a smettere di ascoltarla, ti entrano dentro come una droga il sequencer Roland di Nick e la batteria pulsante di Roger. L’intro della successiva Anniversary ricorda quello di The Wild Boys, forse un modo per omaggiare uno dei loro più grandi successi. Se non l’avete ancora visto date un’occhiata al video, pieno di strani personaggi e caotico come i tempi che stiamo vivendo, in cui la parola d’ordine sembra essere “STRAFARE”, spingere tutto all’eccesso per mostrarlo al mondo intero: passerete qualche minuto in compagnia di Putin, la regina Elisabetta, Madonna, Elton John e tanti altri.

Se l’inizio dell’album è da fuochi d’artificio, la title track è una ballad moderna che farà contente le romanticone che ancora sognano di ballare con Simon in riva all’Oceano Indiano, con un assolo di chitarra alla Seven and The Ragged Tiger. Giusto il tempo di rifiatare, perchè la successiva Beautiful Lies è una scoppiettante hit disco, così come la successiva Tonight United e, del resto, con Moroder alla regia non poteva essere altrimenti, mi spiace per i vicini di casa che dovranno sorbirsele per parecchi mesi…il gatto al terzo ascolto si è già rassegnato! Atmosfere oniriche per Wing e Nothing Less, che non deluderanno chi ha amato So Red The Rose degli Arcadia, gagliarda la successiva Hammerhead con una chitarra frizzantina, ruffiana invece la traccia More Joy!, che strizza un occhio al mercato giapponese e al mondo dei Manga, già esplorato in passato con successo dai quattro di Birmingham, a tratti sembra persino di sentire la chitarra di Andy in Careless Memories. Chiusura affidata al pianoforte di Mike Garson e alle tastiere di Rhodes per un brano più riflessivo che tende la mano ad un futuro sì incerto, ma con l’unica convinzione che la storia andrà avanti ancora a lungo. Un album che merita la lode perché capace di risvegliare le emozioni di un tempo, partendo dai punti di forza del gruppo (le ritmiche serrate, le atmosfere sognanti, la voce limpida di Simon) per aggiungere poi ingredienti più freschi con featuring azzeccatissimi che creano un ponte perfetto tra futuro e passato.

Voto: 10 e lode

Tracklist:
01. Invisible
02. All Of You
03. Give It All Up
04. Anniversary
05. Future Past
06. Beautiful Lies

07. Tonight United
08. Wing
09. Nothing Less
10. Hammerhead
11. More Joy!
12. Falling