R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Una delle parole che più spesso, ultimamente, si ascolta o si legge nelle interviste rilasciate dai musicisti neri – a qualunque parte del mondo appartengano – è “ancestors”, leggi “antenati, avi, progenitori”. Mai come in questo periodo dove lo spirito del tempo soffia attraverso forze contrarie – politiche, ambientali, razziste ecc – si è notato un riacceso bisogno di ricostruire antichi legami identitari. È pur vero che il concetto di “identità culturale” può anche essere ambiguo, se letto di traverso e rischia a volte di alimentare, paradossalmente, gli stessi pregiudizi che vorrebbe combattere. Qui però, tra un musicista cubano come Omar Sosa ed uno senegalese come Seckou Keita, si riallaccia un legame sotterraneo che precede le loro vite, che risale a ritroso negli anni, ripercorrendo all’indietro le onde dell’Atlantico per riportarli entrambi “a casa”, la terra d’Africa da cui provengono le loro tracce genetiche. A dire il vero i due musicisti si sono conosciuti diverso tempo fa quando, nel 2017, hanno prodotto Transparent Water. Si è inserito così, nella cospicua discografia di Sosa – oltre una trentina di album pubblicati – un lavoro sui generis, lontano dalla matrice jazzistica del pianista cubano ma più vicino alla riscoperta delle proprie radici con l’aiuto, allora come oggi, di Keita e della sua kora. A proposito di questa, a Keita dobbiamo il merito di essere stato uno dei più importanti maestri di uno strumento d’importanza fondamentale nell’ambito musicale africano – e senegalese in particolare – e di aver creato una nuova accordatura in grado di sintetizzare le altre quattro principali conosciute nell’Africa centrale. Il suono della kora, inconfondibile per la sua intrinseca dolcezza e luminosità è una via di mezzo che ricorda in parte sia il liuto sia l’arpa. Sosa racconta che durante l’incisione di questo Suba (alba) avvenuta in Germania a Osnabruck in bassa Sassonia, dopo una vacanza con Keita a Minorca, si era potuto percepire la presenza degli Olishas, entità comprese nei culti della Santeria cubana, intermediari tra gli esseri umani e gli dei.

Non dobbiamo pensare però a questo fatto come alla manifestazione di un credo superstizioso ma alla possibilità che l’anima dei musicisti, aperta agli influssi dell’ispirazione, abbia colto esperienze spirituali, forze estranee alla normale misura della ragione che hanno comunque presenziato alla creazione artistica. È o non è l’arte, infatti, una delle poche dimensioni psichiche che ci pone a contatto con il Sacro? Del resto, la musica di Suba, possiamo anche interpretarla come una lunga preghiera avente come oggetto il desiderio di concordia e di unità che sono forse le richieste più elementari ma anche le più tangibili che possano riguardare l’umanità. L’intero lavoro, persino umile nella realizzazione strumentale – lo stesso Sosa si dice stanco di sfoggiare abilità tecniche – vive di floreale leggerezza e di una malinconia quasi metafisica. Un racconto antiepico – mi si perdoni l’ossimoro – che cerca di recuperare sentimenti semplici, nel senso più aristocratico del termine, cioè mantenendosi lontano da tutto ciò che possa definirsi banale o puerile. Oltre ad Omar Sosa al piano e Seckou Keita alla kora e alla voce principale, troviamo anche il percussionista venezuelano Gustavo Ovalles che interviene con grande maestria alle prese con un mare di strumenti che percuote quasi delicatamente creando ombre e spessori là dove occorrono. Compaiono inoltre il violoncello di Jaques Morelenbaum e alcuni effetti elettronici, per la verità molto discreti, di Steve Arguelles e Yohann Henry, È presente in più il flauto di Dramane Dembelè significativamente attivo in alcune tracce.
Il primo brano dell’album è di per sé paradigmatico. Kharit, nella lingua senegalese Wolof, significa “amico”. Ma il senso è ancora più profondo, rimanda all’immagine platonica di un individuo che ha perso la sua metà e che cerca la parte mancante. È appunto la consapevolezza di ciò che non si possiede e il dolore che ne consegue che spinge al desiderio di completezza. La musica è placida, senza scosse, la voce di Keita è convincente, intonata, alle volte scura e decisa, altre volte poco più che un vibrante lamento. Allah leno medita sul nostro destino, su ciò che possiamo controllare e su quello che sfugge al nostro volere. “Partire” – dice Keita – “è un atto volitivo ma il ritorno è affidato alla volontà di Dio”. Certo, questa è una visione religiosa, molto islamica, per cui l’Uomo è solo un ospite nel Mondo che appartiene interamente ad Allah e a Dio spetta ogni decisione sul nostro futuro, anche a discapito della nostra vita… Musicalmente parlando il brano si mantiene in piena sintonia col sentire dell’intero album, anche se a metà del pezzo le percussioni e il piano prendono una direzione più “cubana”. Tranquillità d’animo, senso della rinuncia, musica cristallina sono gli elementi di questa miscela di notevole spessore artistico e spirituale. Korason è il brano che preferisco in assoluto. L’intervento di Morellenbaum al violoncello ha una struggenza tutta europea, la musica si espande orizzontalmente come l’acqua del mare e chissà che sia proprio questa la traccia che più si lega al ricordo nostalgico dell’Africa e alla distanza che si è creata dalla madrepatria. Una sensazione di addii, una nostalgia che è vero nostos algos, cioè dolore del ritorno, il ripercorrere col ricordo la strada perduta. Drops of sunrise è canzone piena di speranza e di amore per la luce, simbolicamente percepita come rinascita. Lo stesso Keita, autore di questo brano cantato in entrambe le lingue senegalesi, cioè il Wolof e il Mandinka, si esprime con una vocalità intensa, commovente, cosciente delle proprie ombre e del suo desiderio di luminosità, tanto è vero che ama definirsi “uomo del mattino”. Gniri Balma significa “danza del balafono”, dove quest’ultimo è un antico strumento percussivo, una sorta di xilofono, suonato ritualmente talvolta durante i cerimoniali di circoncisione – il 95%.dei senegalesi è di religione musulmana. Il balafono non è comunque qui presente nell’incisione, sostituito da synth e da vari effetti percussivi.

Voices on the sea, solo suonato, s’accompagna ad una specifica di Sosa, che rivela come ogni composizione di questo album fosse in origine anche un ascolto, quel sentire che ispira la creazione, il suono che crea altri suoni. E, secondo entrambi gli autori di questo disco, forse non c’è suono più avvolgente e affascinante delle onde del mare. Ma è anche un suono che significa dolore, in origine ricordo di schiavitù e ora ricerca di un avvenire migliore, emigrazione, fuga da un mondo che non ha niente da offrire. Il flauto di Dembelè, i suoni ondosi, i cori di bambini, il piano di Sosa che suona una semplice melodia tradizionale esprimono una lontananza, un rimpianto e forse la ricerca di una pacificazione interiore che è sempre la dinamica più difficile da realizzare per ogni essere umano. In 2020 Visions compare un nuovo strumento suonato da Ovalles, il “batà”, una particolare percussione utilizzata nei riti della Santeria cubana. Ci sono però delle sovra incisioni che permettono a Sosa il contemporaneo suono del piano e della marimba. Anche questo brano ha una vocazione alla danza e invita al movimento, presentandosi con una struttura circolarmente ripetitiva. Rei’s Ray è uno dei momenti più toccanti di questo disco. Si tratta di una dedica di Sosa alla memoria di un amico scomparso, il flautista Reynaldo Perez Cruz. La tristezza che sale da queste note è palpabile e resa ancor più tangibile dal flauto di Dembelè che con grande tatto e delicatezza aggiunge il suo soffio per ricordare il compianto musicista cubano. Gran lavoro di Keità che con la sua kora circonda il brano con un’aura affettiva carica di empatia. Maam è un bellissimo e sentito brano composto da Keita e dedicato a sua nonna, incentrato sul ricordo di quando ella sapeva ancora danzare. Perché, dice Keita, l’arroganza giovanile ignora che i vecchi sono stati giovani anche loro, un tempo, e come tutti sapevano vivere e danzare così come fanno ora le nuove generazioni. Dopo Korason mi sembra la traccia migliore nell’intero contesto del disco, anche questa molto malinconica, sentimentale, un vera e propria dedica d’amore. Molto belle le percussioni, così discrete eppure musicalmente significative, una sorta di orologio ritmico che batte un tempo piu vicino a Cuba che non al Senegal e che s’amalgama magnificamente con la voce di Keita e con il coretto in sottofondo. Squisita la raffinatezza emotiva ed esecutiva, veramente memorabile. Torna l’espressivo violoncello di Morellenbaum in Floating Boat, brano suggerito dall’osservazione delle barche ormeggiate nel porto di Minorca, durante la vacanza condivisa da Sosa e Keita. Ancora l’acqua, ancora l’evocazione del mare e la meditazione sul fatto che gli esseri umani appaiono come quelle imbarcazioni fluttuanti, in perenne dondolio sulle onde, alla ricerca di una stabilità che forse è più illusoria che reale. No One Knows è una passeggiata modale che si muove tra poche, centellinate note di piano, allunghi di violoncello, synth e l’onnipresente kora con le percussioni. Un brano che emana una tranquillità lunare, un’elevazione notturna, senza peso né pensieri, quasi un’esperienza fuori dal corpo. L’album finisce con questo pezzo e porta con sé un lessico apparentemente semplice nella forma ma decisamente più elaborato nella sintesi, perché la scelta delle note non è che il frutto di una ricerca che ha richiesto un lungo tragitto interiore. Un percorso iniziato in Africa e che qui vi ritorna, dopo lungo peregrinare.
Tracklist:
01. Kharit
02. Allah Léno
03. Korason
04. Drops of Sunrise
05. Gniri Balma
06. Voices on the Sea
07. 2020 Visions
08. Rei’s Ray
09. Maam
10. Floating Boat
11. No One Knows
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