R E C E N S I O N E
Recensione di Mario Grella
Rendere udibile l’esperienza del disastro. Ecco, si potrebbe descrivere in questo modo il lavoro di Moppa Elliott, compositore molto singolare nel panorama del jazz contemporaneo così come, per le tematiche trattate, che potremmo definire con un termine genericamente “ecologiche”, ma in realtà sarebbe una definizione un po’ troppo vaga. Del resto il titolo di questo strabiliante lavoro, Disaster Vol. 1, lascia pochi dubbi, ma è evidente che i disastri evocati dai Mostly Other Peoples do the killing, ovvero lo stesso Moppa Elliott al basso, Ron Stabinsky al pianoforte ed elettronica e Kevin Shea alla batteria ed elettronica, sono disastri esistenziali o meglio disastri che afferiscono alla coscienza dell’essere umano, incapace di vivere il rapporto con il pianeta che lo ospita in maniera non conflittuale ed autodistruttiva. Anche il nostro rapporto con i disastri naturali appare malato, lo ignoriamo, cerchiamo di limitarne le conseguenze, senza mai interrogarci profondamente sul “senso” di una eruzione vulcanica o di un terremoto. Sarebbe necessario invece saper leggere anche la forza della natura e l’effimera vita umana, in una chiave di lettura escatologica. Per affrontare tematiche del genere con il jazz, anzi con il free jazz, ci vuole una bella dose di coraggio e di immaginazione.

Il disco, uscito nello scorso mese di febbraio è davvero ricco di soluzioni sorprendenti e raffinate. Nel 1979 a Three Mile Island si sfiorò una epocale tragedia nucleare attorno ad un reattore nucleare: il primo brano, composto da Moppa Elliot, porta lo stesso nome di quel luogo maledetto e si sviluppa, per così dire al contrario, dal caos generato dalle radiazioni in fuga, per terminare con la quiete prima dell’esplosione. Con un supporto tutto sommato controllato degli effetti elettronici, è il pianoforte di Ron Stabinsky a condurre la narrazione musicale. Il brano successivo Exeter, ci riporta alla tragedia dell’omonima località della Pennsylvania, dove durante lo scavo in una miniera per l’estrazione del carbone, il letto dell’attiguo fiume Susquehanna, franò all’interno della miniera, provocando una strage. Chi però si aspettasse un gorgo di musica a fosche tinte e ad alto tasso di drammaticità, resterebbe deluso, poiché gli accordi del piano di Ron Stabinsky, sembrano più da piano-bar che non da tregenda. Ma, naturalmente, sarebbe stato troppo facile e prevedibile mettere in piedi una composizione “impressionista”. Siamo lontani anni luce dai toni del sopravvissuto di Varsavia Schonberghiano che sfocia nello “Shema Israel”: non è quella il tipo di evocazione che il trio cerca. La materia sonora è raffinata, quasi consunta intorno alla meditazione musicale. Anche con Markus Hook, i toni compassati per raccontare la tragedia, non mutano; in questo caso è la collisione tra due petroliere nelle acque del fiume Delaware, con relativo incendio della superficie del fiume ad ispirare Ron e la sua band. Arrivati a questo punto sarebbe legittimo che l’ascoltatore si chiedesse quale è il vero senso di questa operazione musicale. Non so se sia sempre legittimo chiedersi il senso di un’opera d’arte facendo precedere la musica dalle cosiddette “spiegazioni”. In fondo si potrebbe tranquillamente ascoltare del jazz anche osservando la volta della Sistina o un cielo stellato. Il significato e il significante, in fondo, sono sempre uniti da un rapporto convenzionale ed arbitrario. E così, in questo originalissimo disco, è evidente che la meditazione musicale (significante) abbia un registro imprevedibilmente diverso dai fatti narrati (significato). Cambia poco con Wilkes-Barre, città natale di Ron Stabinsky, devastata dall’uragano Agnes, se non per un uso più consistente dell’elettronica sotto forma di disturbo del piano: potremmo dire una composizione per “piano disturbato”. Centralia è il dinamico racconto della fuga da una miniera in fiamme (fatto accaduto nel 1962), tutto giocato sul colorismo ritmico del piano di Ron, così come la seguente Johnstown, località della Pennsylvania distrutta da un’alluvione. Boyertown è invece una multiforme e destrutturata marcia funebre, dedicata alle vittime dell’incendio del Teatro dell’Opera Rodi del 1908. Il jazz però con le marce funebri ha avuto sempre un legame particolare, basti pensare alle sfilate funebri di New Orleans o i ritmi “habanera” di Cuba. E come concludere meglio, se non con la surreale tragedia di Dimock, sempre in Pennsylvania, dove dai rubinetti delle case, a causa di fughe di gas nel sottosuolo, esce fuoco anziché acqua? Quello che è certo che questo gusto del paradosso musicale e semantico, è il nerbo di tutto il lavoro dei Mostly Other People Do the Killing, tragedie prese a prestito per imbastire un disco originale nei contenuti che mi ricorda molto, in quanto a gusto del paradosso, a “Music for the film for Buster Keaton” di Bill Frisell, dove la chitarra elettrica del grande jazzista, appare assolutamente eccentrica e spiazzante rispetto alle immagini antiche del grande comico del cinema muto.
Un disco che in fondo sembra voler esorcizzare il significato simbolico delle tragedie, un disco da ascoltare senza pregiudizi e senza eccessiva preoccupazione. E magari un giorno riusciremo a fare musica anche sulle tragedie in corso, tutto questo è, per fortuna, nella natura umana.
Tracklist:
01. Three Mile Island
02. Exeter
03. Marcus Hook
04. Wilkes-Barre
05. Centralia
06. Johnstown
07. Boyertown
08. Dimock
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