R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Ero rimasto decisamente impressionato dal primo lavoro di Giovanni Angelini A Tratti uscito in quartetto ormai sette anni fa. Quell’album dimostrava una maturità compiuta, proponendo un jazz in parte “quasi” tradizionale, manifestando però tensioni e dinamiche più contemporanee, a dimostrazione che il carattere smanioso del giovane batterista, allora trentenne, sembrava mal digerire le atmosfere rassicuranti di un limitante e abituale conformismo musicale. Così, con una formazione senza contrabbasso, venivano affrontati temi piuttosto lineari alternati ad altri tutt’altro che accondiscendenti, ad esempio in Scatole Blu o com’è successo con l’atmosfera chicagoiana di People in Yellow, fino ad arrivare a lambire lo spirito della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden. Sembrava che Angelini avesse voluto ripercorrere alla sua maniera una gran parte della storia del jazz, soprattutto quella sviluppatasi dagli anni’70 in poi. Da quella prima esperienza a Freedom Rhythm sono cambiate un po’ di cose anche se non in maniera così radicale. Innanzitutto sono aumentati i collaboratori. Ci sono infatti otto musicisti che lo affiancano e della primaria formazione a quartetto è rimasto solo Vince Abbracciante, qui al piano elettrico. Stavolta il basso c’è, e si sente, ed è quello elettrico di Dario Giacovelli. C’è inoltre una chitarra suonata da Alberto Parmegiani e soprattutto compare una sezione di fiati con Gaetano Partipilo al sax contralto – considero un suo vecchio lavoro del 2013, Besides, un piccolo gioiello che spesso mi piace riascoltare – Giuseppe Todisco alla tromba e Antonio Fallacara al trombone. Chiudono la formazione il violoncello di Giovanni Astorino e l’intervento vocale di Simona Severini. Dato che Angelini è un musicista molto eclettico, nei suoi dischi si possono avvertire disparate influenze che ne attraversano la musica, senza che per questo l’Autore debba deviare verso eccessi didascalici o peggio ancora trasformarsi in un musicista che suoni “alla maniera di…” È per esempio fuor di dubbio, come del resto ammesso dallo stesso Autore, che una certa componente rock abbia animato – ed anima tuttora, più in questo disco che nel precedente – le sue bacchette quando cercano ritmiche apparentemente più aggressive. Anzi, a voler essere più specifici si avverte molto dell’epoca progressive, periodo che tra l’altro continua storicamente tuttora, facendo affidamento al grande numero di appassionati in circolazione che ancora seguono questo genere. Ma sarebbe troppo semplicistico parlare di un ibrido jazz-rock perché questa musica non lo è, o almeno, non dimostra di essere soltanto questo. Il jazz di Angelini è un prodotto composito, brillantemente policromo.

Se la ritmica, Angelini e Giacovelli, lavora costruendo solide tessiture di matrice jazz-rock, l’innesto della chitarra e della sonorità sorprendente del violoncello si amalgama con i fiati e la discorsività essenziale del piano elettrico ottenendo un suono plastico e tangibilmente materico. Anche se il lessico di queste composizioni è piuttosto elaborato non ci sono arditezze estreme e forse, rispetto al precedente A Tratti si avverte un desiderio maggiore di trovare una dimensione più personale, una dimora a misura soggettiva, sviluppando magari una quantità minore di idee ma percorrendole più in profondità.

Voyager ha un inizio spiazzante, con i fiati che irrompono sulla scena quasi in modo “maestoso” – ricorda vagamente l’incipit dell’Atom Heart Mother pinkfloydiano –  e la prima impressione è quella di star ascoltando una musica che s’annunci come classicamente orchestrale. Ma poi accade qualcosa di diverso. I fiati arretrano e si stabilizza una base a quattro, batteria più basso più violoncello e piano elettrico. Su questa trama il violoncello suona, con grande suggestione, come un Jean-Luc Ponty cinquant’anni dopo. Una tromba sordinata s’inserisce in lontananza, per poi mettersi in primo piano – senza più mute – accompagnandosi ad un curioso effetto di fiati dai suoni discendenti che ricordano il passaggio di veicoli in corsa. Un pieno di ottoni precede il ritorno al tema iniziale segnato dal violoncello. Segue il brano che dà il titolo all’album, Freedom Rhythm. Qui l’impronta progressive è ben presente e si inizia con il piano elettrico e il basso che procedono insieme in sincope ritmica. Si avverte una sonorità che non riesco a decifrare, forse una tromba con effetto synt – o è la chitarra? – che dopo un breve percorso melodico cede spazio alle ance. Se al posto dei fiati ci fosse stato un organo, chissà, forse si avrebbe avuto l’impressione di ascoltare i Caravan nei loro momenti migliori… Grande drumming di Angelini, posseduto dal demone del rock che, evidentemente, in alcuni casi ritorna a dargli quel certo tipo di elettricità. Buono anche l’intervento alle corde, sia al basso che alla chitarra, mentre Abbracciante fa numeri turchi al piano elettrico che si stempera nel pieno espressivo dei fiati. Subway ha un bel riff di chitarra sul quale il trombone e la base ritmica s’incrociano fino alla comparsa dello wha-wha. È il momento di Fallacara che bluesizza col suo strumento tra le note del piano elettrico. Da questo punto in poi i vari strumenti si sovrappongono e si sostituiscono l’un l’altro, ma durante l’assolo di Abbracciante il clima diventa sempre più progressive. Brillante finale tra fiati, wha-wha e il gran numero di giri del motore percussivo di Angelini. Piccolo saggio d’arte del batterista con Unity che precede l’unico brano cantato dell’album, I Need Your Smile.

La Severini sospira la sua voce accompagnata dal sax di Partipilo che si butta su qualche frase del cantato sostenendolo tra i bagliori del piano elettrico e la struggenza delle corde del violoncello. Ma è l’impeto del sax che rompe gli indugi con un fraseggio accecante, modificando modi ed intenzioni in quello che forse è il momento più asciutto e jazzy dell’intero album. Riprende poi la melodia della canzone, non una vera e propria ballad per la verità, dato le numerose discontinuità nel percorso del brano. Onirismo e piacevole abbandono, improvvise e derapanti svolte di sax rendono comunque questo pezzo alquanto suggestivo ed interessante. Release The Monkey si manifesta con una bella sequenza di fiati che impostano un tema tendente a riproporsi lungo il decorso del brano. Altro assolo di Partipilo a precedere un momento di meritata gloria anche per Angelini, che si diverte coi tamburi. Un minuto e mezzo circa di batteria, poi riprende il tema di apertura che acquista nel frattempo qualche nota drammatica in più e si porta alla chiusura. Huelva, in parte all’inizio in tempi dispari, è anch’essa impostata tematicamente dai fiati. Il brano si concede qualche momento di intimità, trombone e chitarra provano a dialogare, così pure il piano elettrico col basso ma sono i fiati a dettar legge con nette scansioni metriche. L’assolo di tromba di Todisco è squillante mentre il gioco ritmico si fa più frastagliato, raggiungendo una bella pienezza strumentale nel finale. Compass s’affida nelle battute iniziali alla coppia sax e chitarra per poi prendere una strada moderata con il piano elettrico a dominare la scena insieme a Partipilo. Ma è soprattutto quest’ultimo che prende la via dell’assolo in un brano che sta tra i Soft Machine di Ratledge e Hopper e Dave Liebman.

Angelini cerca nuove coniugazioni verbali, in questo suo ultimo disco. In un clima decisamente urbano, con una formazione in cui i fiati sono vigorosamente presenti, la musica che si costruisce risulta, alfine, un po’ anfibia. Si avverte ad ogni modo il senso e lo sforzo nella ricerca di una chiarezza che appare sempre più vicina ma non ancora pienamente realizzata.

Tracklist:
01. Voyager
02. Freedom Rhythm
03. Subway
04. Unity
05. I Need Your Smile
06. Release The Monkey
07. Huelva
08. Compass