R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Cos’hanno in comune, dal punto di vista soprattutto musicale, tre luoghi caldi come Chicago, Londra e Cape Town? Attualmente almeno due cose: una stordente gioia di esistere – nonostante tutto – e la vitalità creativa del jazz. Abbiamo già visto, almeno quando parliamo di queste geografie, come il termine jazz vada preso con le opportune distanze. Può certo non essere piacevole, soprattutto per i più tradizionalisti, sezionare autopticamente questa musica ed accorgersi come, ai giorni nostri, essa si dimostri un puro assemblaggio di varie parti eterogenee. Tradizione e blues, certo, hard be-bop e free ma anche e oserei dire soprattutto rock progressive, fusion, funky, hip-hop, pop music, dance, dub, neo-soul e vai così aggiungendo tutte le etichette che conosciamo, per essere sicuri di non sbagliare. Èsoprattutto la componente black, da cui il jazz è nato, che tende a sporgersi oltre l’orizzonte ed a comprendere con feroce intuizione che da un mondo economicamente e politicamente globalizzato sarebbero scaturiti ritmi nuovi, orgogliose resistenze, oltraggiosi atteggiamenti dissonanti ed altrettanti neoromanticismi di ritorno. Ma anche e soprattutto il desiderio di recuperare ciò che è venuto a mancare, cioè l’idea di vivere non esclusivamente assoggettati al denaro e a tutta la devianza che ne consegue, qualora lo stesso venga assurto come nuova divinità a cui sacrificare, metaforicamente e non, le proprie vite. La contestazione ideale al principale mito del mondo moderno continua, forse suo malgrado, sulle radici di un vecchio proposito ormai sepolto con la scomparsa della cultura hippie. Ciò lo si comprende fin da subito, nei primi secondi d’ascolto di questo Renaissance, opera prima di un giovane musicista londinese che si fa chiamare DoomCannon. Tra i suoni lancinanti di un sax impegnato a reggere un poderoso R&Blues dai toni melodici, una voce annuncia che “Money is everything”, dichiarando da subito l’intento polemico con cui l’Autore vorrebbe stigmatizzare l’attuale stato d’animo della sua città e non solo. Contemporaneamente egli si augura una sorta di rinascimento del vivere civile, legato ad un differente modo di pensare e di discutere la gerarchia dei valori sociali, soprattutto per quello che più espressamente riguarda la popolazione di colore. Nonostante DoomCannon sia alla sua prima esperienza discografica questi ha già lavorato come musicista – pianista e flautista – galleggiando nella promettente scena londinese insieme a gruppi interessanti come i Project Karnak – trovate facilmente in streaming il loro e.p. d’esordio Equinox – e i più rockkettari Triforce ed esponendosi inoltre anche come produttore. Renaissance è un lavoro potente, adulto, uno zibaldone di scheggie emotive, di riflessioni esistenziali e di suggestioni poetiche caratterizzato in modo evidente soprattutto dalle scelte ritmiche del batterista Oscar Ogden. Vengono scelti i tipici schemi percussivi composti, spesso dispari e plurifrazionati che sono caratteristici di tutto il nuovo jazz udibile sull’asse Chicago-Londra-Capetown e che costituiscono il battito extrasistolico di questa musica.

Si parte con Dark Ages in un’atmosfera densa e magmatica che inizia quasi timidamente con qualche nota di sax e tastiera tra le voci che dichiarano provocatoriamente la loro adesione all’ottica del Capitale. Su tutto sopravanza un bel tema melodico con i fiati e le tastiere sovrapposte, a stemperare “l’oscurità dei tempi”. Entrance to the Unknow ha tutt’altro clima, è un brano lento e moderato introdotto da un arpeggio di tastiera su cui il sax di Kaidi Akinnibi sussurra modellando lentamente la musica che pian piano cresce di spessore tematico. Ritmo di base, forse corroborato da qualche intervento elettronico, sempre complesso, ricco di varianti e con appoggi rarefatti del basso elettrico di Jamien Nagadhana. Forse questa traccia, così distante dalla precedente, ha lo scopo di contrapporsi allo stato confusivo innescato proprio da Dark Ages mostrando quindi che esiste un’alternativa più riflessiva, una visione del mondo più distesa e serena a cui far riferimento. In Uncovering Truth facciamo conoscenza con l’efficace chitarra di Daniel Rogerson che si propone con un serrato arpeggio su una ritmica piuttosto rock. Tuttavia poco dopo un pieno orchestrale e corale rimanda a Quincy Jones, anche se tutto questo inaspettatamente viene interrotto da un curioso schema di basso e batteria, un passo furtivo in cui il sax si mostra in assolo tra il crescendo di sottofondo. Aumenta così la vigoria di Akannibi e il suo soffio si fa rabbioso e drammatico ma invece di esplodere in una situazione free tutto rientra nelle battute iniziali. La chitarra, veloce e puntuale, molto bella, prende il comando della musica e si espone in un assolo alla John Scofield – direzione Mc Laughlin – dalle forti tinteggiature rock, con il batterista che suda per sostenerne l’impatto forte e convincente. Thesis è un breve frammento riempitivo in cui tastiere e sax ondeggiano apparentemente senza meta. Amalgamation possiede anch’esso un intro affidato alla chitarra con un fiammeggiante riff appoggiato al veloce drumming di Ogden. Dopo questo inizio che s’annuncia veloce e potente, in realtà la situazione rallenta e cresce progressivamente di dinamica sonora. Ma qui è doveroso segnalare il grandissimo lavoro del batterista che se è riuscito a non sputare sangue in quest’occasione certamente non correrà mai più questo rischio. Qualche accordo di piano e una bella trama di violini – Marsha Skinns & Saskia Horton agli archi – sembrano spegnere l’energia del brano ma qui ogni cosa cambia in breve tempo, dal sole ai temporali in un batter di ciglia e quindi la musica riprende forza e fiato nel finale.

This Too apre più moderata, nei cari, vecchi 4/4 amati dai rappers ma qui non ci sono parole né canto alcuno, solo accordi ammalianti di tastiera, tocchi di chitarra e il sax che si esprime in secondo piano come nei brani soul. Times è un annuncio inizialmente riservato al pianoforte e al sax che modulano tra la voce di Lex Amor e il crescente drumming indiavolato di Ogden, anche se è difficile capire il limite tra percussioni naturali ed elettroniche. Akinnibi imbraccia il soprano e i violini regalano un aspetto un po’ drammatico alla composizione, aiutando comunque a mantenere un’aerea, romantica visione d’insieme. Black Liberation Prologue è un tappeto elettronico che avrebbe potuto comporre un Corriere Cosmico degli anni’70 o un autore di colonne sonore di film americani anni ’40 su cui il parlato di DoomCannon fa riferimento alle violenze poliziesche sulla gente di colore e si augura un futuro più rispettoso e speranzoso con “…equal rights for all black people everywhere”. Il brano Black Liberation vero e proprio si allunga in un canto modale, quasi un lamento su cui entrano ed escono le varie strumentazioni contribuendo a rendere il frammento finale come una vera e propria epitome dell’album, in un distacco malinconico piuttosto drammatico, forse un poco enfatizzato.
Buona la prima, si potrebbe affermare a commento conclusivo di Renaissance. Non un capolavoro ma un esordio di carattere, con tante buone carte ancora da calare. DoomCannon ha qui comunque giocato la sua mano tra veloci saliscendi, idee debordanti e collaborazioni eccellenti che ci hanno permesso di conoscere più da vicino molti buoni musicisti finora non perfettamente focalizzati. In quanto al “messaggio” socio-politico che l’album pare proporre c’è poco da commentare. Lo speranzoso Autore ne fa un credo quasi programmatico mentre altri attribuirebbero a tutto questo un significato un po’ più utopistico. Nel frattempo ci si accontenta di ascoltare buona musica, ed è già molto.
Tracklist:
01. Dark Ages
02. Entrance To The Unknown
03. Uncovering Truth
04. Thesis
05. Amalgamation
06. This Too
07. Times (feat. Lex Amor)
08. Black Liberation Prologue
09. Black Liberation.
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