R E C E N S I O N E


Recensione di Aldo Del Noce

Steve Lacy (al secolo Steven Norman Lackritz) permane, in estrema sintesi, un autore e performer di profilo del tutto personale, inizialmente evolutosi lungo la linea creativa di Thelonious Monk, ma alla lunga fautore di uno stile e soprattutto una legacy di carattere unico, attore di un travagliato ed alterno corso vitale, ospite anche del nostro paese durante un difficile periodo degli anni ’70 (che lo videro tra l’altro quale preziosa ‘guest star’ nell’album Maledetti degli Area), forte di un importante sodalizio con il pianista Mal Waldron e alla testa di svariate formazioni a propria regia, nonché un’innumerevole serie di produzioni in solo.

Queste ultime ne rappresentano probabilmente l’alveo creativo maggiormente identitario, ora oggetto di studio e riproposizione da parte di titolati emuli ed epigoni: pertanto la presente iniziativa non perviene unica, anzi ricordiamo una recente trasposizione per clarino basso ad opera di Nino Locatelli (WeInsist! 2018) ed una, più recente ed analoga, a firma di Jon Raskin ancora al baritono (Temescal, 2021).

Il versatile discepolo John Sinton, formatosi alla scuola chicagoana (comprendendo l’AACM) ma fissato sull’area di New York, che si definisce “operatore di sax baritono, manipolatore di clarino basso, che cerca di diventare ogni giorno un ascoltatore migliore” ha rilasciato nell’arco di dodici mesi non meno di tre testimonianze discografiche individuali, qui devolvendosi ad un progetto monotematico su materiali di Lacy, argomentando come la preparazione sia passata anche sotto l’egida di quest’ultimo. Di fatto, vi sono tre ‘volumi’ di Studi, ciascuno di sei brani, e del primo (Book H) composto nel 1983, Lacy stesso realizzò l’incisione – Hocus Pocus—Book ‘H’ of “Practitioners” (Crépuscule, 1986).
E quanto alla presente versione così si condivide: “Lacy diceva che ogni pezzo rappresentava una sorta di ‘ritratto’ di qualcuno con cui teneva un debito di riconoscenza. Io ho passato molto tempo a suonare i pezzi: quando mi sono trasferito a New York li usavo come materiale per suonare per strada nelle metropolitane, come materiale per il riscaldamento e ho provato a suonarli in duo con sassofonisti, batteristi, musicisti di ogni genere. Ho fatto un paio di tentativi per registrarli. Mi prendevo diversi mesi di pausa e poi ci tornavo; li suonavo e poi li riproducevo ancora. Ho cercato di avvicinarmi a loro nel modo in cui Steve ha detto che si avvicinava alla musica, da materialista: e in qualche modo, ne ho trovato delle versioni con cui poter convivere. Benché Steve non fosse sicuro sulle prime che i brani fossero adatti al sax baritono, ascoltati i miei primi tentativi diede il suo avallo. Da allora ho iniziato a sminuzzare i brani, suonando per vent’anni le stesse piccole frasi ancora e ancora e ancora; nel 2021 mi sono forzato a registrarli, per poter passare ad altre iniziative”.

Dovessimo avanzare qualche considerazione sulla pertinenza di scelta del medium strumentale, il baritono si trova quasi all’estremo opposto di gamma del soprano, comunque agito e ‘vissuto’ da Lacy con modalità praticamente singolari, e qualche analogia del più russante e meno agile strumento si fonda sui clangori meccanici e sulle risonanze (anche se a tratti vi è la curiosa quanto grottesca sensazione di esserci trasferiti su un’area braxtoniana – che della letteratura lacyana non è mai stata in fondo né analoga né antitetica -ma giusto per elementi di timbrica e di dinamica). Sinton comunque argomenta: “Gran parte di ciò che Steve ha scritto nei suoi studi avviene nel registro basso del sassofono, e questo ha concentrato per tutta la vita la sua attenzione su quell’area del sax soprano”.

Inoltre l’interprete (evidentemente in forza delle frequentazioni personali con il modello) ha inteso operare, alla fine del pluriennale praticantato, alterazioni di tonalità o diteggiatura, ma si spinge più a fondo nelle motivazioni: “questa registrazione è un altro aspetto della mia costante lotta con l’area della cultura americana chiamata “tradizione jazz”. Quasi un paradosso nei confronti delle tradizioni negli Stati Uniti: temo che nell’aggrapparsi così strettamente a vari vettori di attività, tutto in nome del “mantenere” o “rispettare” una tradizione, in fondo i bianchi temano che sia un’illusione autoindotta, fin dall’arrivo dei coloni nel continente, una giustificazione primaria per l’espansione, il massacro, la colonizzazione e la creatività è stato il mito del cittadino auto-determinato”.

La presa di coscienza e gli illustri riferimenti riuscirebbero anche apprezzabili, ma il sassofonista non sfugge alla puntualizzazione, insistita, sulla “ripetitività degli Studi”;  e sarebbe onesto rilevare come l’ascolto, anch’esso ripetuto, riesca poco appassionante, in virtù del carattere appena “introduttivo” del “libro del praticante” nei rispetti del mondo di Lacy, quasi un assioma sul non poter rendere giustizia più di tanto al complesso e sostanzialmente unico ‘mix’ di dolcezza, graffiante ironia, spirito lunare ma soprattutto peculiare grinta così lungamente declinata dalla alchemica grandezza del suo ideatore.

Josh Sinton: sax baritono

Book of Practitioners, Vol. 1 “H” Bandcamp

Tracklist:
01. Hubris (to Babs Gonzalez) 
02. Hallmark (to Edward “Sonny” Sitt) 
03. Hurtles (to Karl Wallenda) 
04. Hustles (to Niccolo Paganini)
05. Hocus-Pocus (to Harry Houdini) 
06. The Heebie-Jeebies (to James P. Johnson)

Photo © Peter Gannushkin