R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Ciascuno vive il proprio tempo come crede ma questa esperienza sinestesica che accoppia il trascorrere dei giorni con la percezione dei colori mi è veramente nuova. Non so in che misura questo titolo, Time is Color, possa essere considerato alla stregua di una boutade per regalare un nome singolare all’ultimo album di Cédric Hanriot. Il talentuoso ed immaginifico pianista francese, comunque, è giunto all’idea decisamente originale che il Tempo possa essere interpretato e vissuto soggettivamente anche come colore. Del resto piuttosto peculiare è pure il clima di questo lavoro, tutto giocato sulla sovrapposizione di strumenti acustici “classici” come il piano, il basso e la batteria da un lato e gli effetti elettronici dall’altro – l’impressione è quella di percepire più strumenti di quanti effettivamente non ve ne siano, al netto di eventuali sovraincisioni – e con la presenza della voce, qua e là, del rapper Days. Hanriot viene da lontano, anche se i suoi lavori da titolare e co-titolare si possono contare sulle dita d’una mano. Ha partecipato a numerose, importanti collaborazioni, non solo con quei musicisti coinvolti nei suoi dischi – ad esempio Terri Lyne Carrington e John Patitucci in French Stories del 2010 – ma anche con Herbie Hancock, Melissa Aldana, Robert Glasper e George Duke – questi ultimi due hanno preso parte con lo stesso Hanriot alla stesura di Beautiful Life di Dianne Reeves nel 2014. Ed è proprio lo spiritaccio di Hancock e la giocosità di Glasper che mi sembrano i numi tutelari più idonei per Hanriot, particolarmente a riguardo di questo lavoro. Meno “sperimentale”, se vogliamo, di French Stories, più vicino a suggestioni funky-fusion e hip-hop ma con evidenti aperture verso un jazz piu contemporaneo,Time is Color appare naturalmente frammentato, così com’è forse nelle intenzioni dell’autore, arricchito da improvvise fasi di turbolenza e da momenti maggiormente distensivi. Lungi da considerarsi un corpus omogeneo, a tutti gli effetti l’album appare come un taglia-e-cuci di stili diversi – è presente anche una sorta di medley di un brano dei Nirvana con uno dei Massive Attack – ma il risultato finale è comunque una miscellanea avvincente e carica di sorprese.

Hanriot è un ottimo pianista anche se non è ancora riconoscibile stilisticamente, non avendo, per ora, caratteristiche tali da tratteggiarne in modo più preciso la personalità espressiva. Accanto a lui suonano Bertrand Beruard al basso elettrico e contrabbasso con Elie Martin Charriere alla batteria, due musicisti che Hanriot conosce molto bene per averci suonato insieme in tour da almeno sei anni a questa parte, Inoltre ci sono due brevi ospitate, il sax contralto di Braxton Cook e la tromba di Jason Palmer. In più è presente anche il già citato Days agli interventi vocali.
L’album Ed è proprio quest’ultimo a rappare sul primo brano, un crocevia di effetti elettronici su cui Days “odia e non odia i lunedì”. Ma quello che sembra ad un primo approccio uno dei tanti spunti hip-hop già uditi qua e là, cambia secondariamente veste con un tema introdotto da Hanriot – le prime note ricordano il beatlesiano Norvegian Wood – a proporre il tema del classico trio pianocentrico, caratterizzato, oltre che dal suono dell’articolato pianoforte, da un’impressionante pompa di basso elettrico e da una batteria costantemente in levare. Un insieme che propone un’atmosfera frequentemente sospesa in un limbo a metà tra ricordi be-bop e momentanee rarefazioni sonore, qualcosa che mi ha riportato in mente le incisioni dei Bad Plus, per rendere l’idea. Se Run voleva restituire l’immagine, come suggerisce il titolo, di qualcuno impegnato in una corsa affannosa, bisogna pur dire che in parte il trio è riuscito nel suo intento, anche grazie alla prestazione del batterista che dopo l’inizio tranquillo innesta la quarta simulando con le sue percussioni una fuga a perdifiato attraverso la città fatta di suoni e di colori che risuona tra le quinte, con scariche elettriche ed improvvise zone buie periferiche. Un brano visionario, quindi, a tratti quasi una sorta di soundtrack, ma circa a metà tutto si modifica. L’aria pare rarefarsi, i suoni si diradano per un po’, fino a quando la linea espressiva iniziale riprende corsa e fiato. È come se in questo pezzo operassero due tensioni differenti, una più centrifuga ed una seconda più contratta che si alternano nei diversi momenti dello svolgersi della traccia. Nitro è solo un frammento rappato immerso in una salsa di screpolature elettriche. Anche Water compare alla ribalta tra sgocciolamenti acqueo-elettronici ed il parlato di Days che ribadisce il pensiero di Hanriot, “Time is colour, colour in time…” , all’interno di un’atmosferico noir, moderato nel suo svilupparsi tra note ben scandite di piano ed oscillazioni synth sullo sfondo. La musica mantiene un’anima melodica, persino con qualche fregola romantica, anche se i passaggi pianistici sono molto moderni e la tecnica di Hanriot può esprimersi in tutto il suo fulgore. Souly funkeggia di brulichii elettronici e ancoranti contributi di basso. Un piano, con poche note contate, inizialmente cerca sé stesso tra una dissonanza e l’altra mentre la batteria suona pulita e piuttosto rilassata.Quando poi la tastiera finalmente si ritrova, il jazz fusionale e groovy-oriented cresce d’intensità e dinamica. Il brano sembra condurci indietro nel tempo, alla seconda metà degli anni ’70, risultando molto piacevole anche se leggermente retrò. Souly Interlude è un altro rap, reso spettrale dall’intervento della tromba di Palmer. Ancora il Tempo protagonista nelle percussioni iniziali di Reverie, intente a simulare il ticchettio di una pendola. Ed è proprio questo tempo imitato che scatena il cumulo di ricordi riaffioranti nell’anfratto spazio-temporale creatosi tra un battito d’orologio e l’altro. I primi accordi di piano scandagliano la memoria, viaggiando sulle ondulazioni elettroniche che s’affacciano in questa sospensione come una catena di rimembranze da riannodarsi. Ed infatti tutto viene ricostruito, man mano che il brano evolve, fino a al crescendo finale, dove un synth imita un coro vocale e il piano corre in un saliscendi di scale a perdifiato. A mio modesto parere questo è il momento migliore dell’album.

Veniamo quindi al medley tra il famosissimo pezzo dei Nirvana Come as you are – da Nevermind (1991) – e l’altrettanto Teardrop dei Massive Attack – da Mezzanine (1998). Curioso questo assemblaggio, dove peraltro i due brani sono facilmente riconoscibili nelle loro strutture iniziali. La mia opinione riguardo le similitudini coi Bad Plus trova in questo caso una conferma. Ora è il contrabbasso che rimarca potentemente l’andamento sonoro mentre il batterista ci dà dentro con foga. Il piano trova praterie d’improvvisazione e si dirige spesso volutamente ai limiti e fuori tonalità mentre la mano sinistra di Hanriot duplica in parte le note basse di Beruard. Un po’ di frenesia in eccesso, molta carne sul fuoco, forse persino troppa. Friday, in rap, è come un cuscinetto tra il brano precedente e quello che verrà, cioè Further. Qualche borborigmo elettronico in apertura mentre parte un bel tema al piano, lento e molto espressivo, ad incrociarsi col suono perentorio del contrabbasso. Hanriot ha un tocco un po’ pesante sui tasti, sembra non conoscere a volte le mezze misure, per cui un brano come questo alfine risulta lievemente più grezzo del necessario. Ci mettono molta energia, i tre musicisti, talora eccessiva, procedendo in controtendenza con l’aspetto melodico e più rilassato della linea di piano. Va meglio in Autumn dove un bell’arpeggio di Hanriot viene sincronizzato con un azzeccato movimento di basso che segue un’efficace linea melodica. L’andamento quasi sinfonico ricorda le atmosfere progressive con tanto di crescendo finale. Con Further Interlude appare il sax contralto di Cook, in un breve intermezzo che prelude a Solace, una sorta di divertimento elettronico con i gelidi piatti della batteria a segnare il crepuscolo dell’album.
Certo è che questo Time is Color risulta alfine sufficientemente stravagante da essere piacevole e divertente. I musicisti lavorano molto di muscoli ma se ciò è plausibile per la componente ritmica un po’ meno lo è per lo stesso Hanriot, pianista molto tecnico ma dal tocco rivedibile, almeno per quello che si può ascoltare in questo album. Ad ogni modo l’attenzione che lo stesso Hanriot dedica ai ritmi contemporanei gioca a favore della sua freschezza e della voglia di sperimentazione che non si fossilizza attorno alla riproposizione di brani jazz-fusion squadrati e tirati a lucido. Tutto questo magari facendosi talvolta anche coinvolgere – ma questo non è detto sia un limite – in una sorta di estetica dell’eccesso.
Tracklist:
01. Monday the 26th
02. Run
03. Nitro
04. Water
05. Souly
06. Souly Interlude
07. Reverie
08. Come as You Are / Teardrop
09. Friday
10. Further
11. Autumn
12. Further Interlude
13. Solace
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