R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Ogni volta che ascoltiamo i musicisti newyorkesi siamo consapevoli che solo qui e in pochi altri posti al mondo possiamo partecipare ad una musica che renda tranquillamente dimenticabile, o quasi, tutto il resto del jazz sparso nel mondo. E proprio da questa metropoli, più specificatamente dalla parte settentrionale di Manhattan, in un quartiere che si chiama Washington Heights, che ha preso il via l’avventura umana e artistica di Lackecia Benjamin, giovane sassofonista-contralto, realizzatrice con questo Phoenix di uno tra gli album più belli e vitali di questi ultimi anni. Da una parte non può che far piacere sapere come l’universo femminile si stia anch’esso appropriando, in misura maggiore rispetto alle decadi passate, di un bene comune come il jazz. A partire appunto dalla produttrice di questo lavoro, la nota batterista Terri Lyne Carrington, ammaliata dalla personalità ma soprattutto dalla risolutezza strumentale della Benjamin. Fino ad arrivare alle numerose ospiti di questa incisione – dalla famosa attivista politica Angela Davis alla cantante Dianne Reaves e alla poetessa Sonia Sanchez – senza contare il buon numero di musiciste che hanno collaborato a questa realizzazione. Il titolo dell’album, Phoenix, può essere interpretato in modi diversi, ma si allude comunque al mitologico uccello della tradizione antica egizia che risorge dalle sue ceneri. Morte quindi, ma anche rinascita sociale e rivendicazioni razziali, presa di coscienza di genere, il ritorno allla vita dopo il periodo pandemico. Ma soprattutto anche una vicenda personale che riguarda direttamente la Benjamin dopo un incidente d’auto che le ha causato, nel settembre del 2021, numerose contusioni e fratture tra le quali un brutto trauma mascellare, pessimo accidente per chi suona uno strumento a fiato. Ma come insegna la leggenda, la Fenice, che non molla tanto facilmente, è tornata a volare nel cielo di New York – anziché in quello di Heliopolis – e nel giro di poco tempo la Benjamin ha ripreso a soffiare nel sax ancora più determinata di prima.

Il suono molto pastoso del suo contralto lo possiamo valutare pienamente nella traccia numero dieci, Trane, dove l’Autrice paga pubblicamente il suo tributo a John Coltrane, sia per quel che riguarda la timbrica strumentale che per il fraseggio. Del resto, il precedente album Pursuance: The Coltranes (2020) aveva già apertamente dichiarato il suo incondizionato amore per la coppia Alice & John Coltrane. Al di là delle influenze personali, l’album è un’estasi di luminosa energia pulsante, con frequenti inserti di suoni urbani, voci, dediche a personaggi essenziali della vita culturale del presente e del recente passato americano e newyorkese. Phoenix rappresenta un mondo urbano, tutt’altro che inerte, intellettualmente strabordante di euforia creativa, consapevole degli ostacoli e dei numerosi conflitti etnico-culturali che lo abitano. Proprio per questo la musica è resa plastica da un suono corposo, nervosamente ruvido nel quale confluiscono elementi funky, fusion, istantanee afro-orientaleggianti, inaspettate dolcezze quasi pop ma soprattutto jazz contemporaneo. Niente free – appartiene ormai al passato – bensì una modalità molto fertile a integrare vari stili che confluiscono in un unicum scorrevole ed eterogeneo, in cui pieni orchestrali e momenti solistici s’intercalano perfettamente in una trama sempre gradevole e palpitante. La sezione dei musicisti è ben nutrita e vede, oltre naturalmente al sax contralto della Benjamin, Josh Evans alla tromba, Victor Gould al piano, organo e Rhodes, Orange Rodriguez ai synth, Enoch Strickland alla batteria, Negah Santos alle percussioni e Ivan Taylor al contrabbasso e al basso elettrico. Vi sono poi le apparizioni più sporadiche di Wallace Roney Jr. alla tromba, Anastassya Petrova al Rhodes e all’organo, Jamal Nichols al basso, Dianne Reeves alla voce, Patrice Rushen al piano e Georgia Anne Muldrow al synth e alla voce.

Con i primi suoni di Amerikkan Skin, tra pistolettate e sirene di polizia, ci immergiamo seduta stante nel clima turbolento del brano. La voce di Angela Davis dichiara che “…la speranza rivoluzionaria risiede proprio tra quelle donne che sono state abbandonate dalla Storia”, ma qui non siamo solo in clima di revanscismo femminista. In realtà si affaccia un intero mondo che passa tra queste maglie, ci sono le rivolte della popolazione nera, c’è la sofferenza dei poveri, la rivendicazione sociale degli esclusi. Un clima di tensione controllata si estende per tutto il brano, dove una coppia di accordi instabili di piano introduce l’unisono tra sax e tromba che si prolunga fino all’entrata dell’assolo della Benjamin. Le note d’organo in sottofondo mantengono un’allerta sotterranea fin quando il sax libera una rabbia repressa con una serie di fraseggi che si acquietano inizialmente solo con la presenza della tromba. In un secondo tempo i due strumenti a fiato si rimpallano l’attenzione fino al finale più melodico e concluso da qualche sussulto di synth. New Mornings è un brano più normalizzato, ricco di inserti funk e soul dove il jazz s’appropria di queste immissioni di musica più popolare, scaricando la tensione verso una maggior rilassatezza. Non manca l’unisono tra sax e tromba, i ritmi diventano più classicamente sincopati fin quando la tromba sordinata di Evans si ricava un proprio spazio che sposta l’equilibrio atmosferico verso un jazz un poco più vicino alla tradizione. Bell’assolo, questa volta più gioioso e con meno tensione in corpo. Da notare lo splendido lavoro del piano di Gould con quegli accordi melodici che danno leggerezza e serenità, almeno quel tanto che serve a mantenere ben soppesato lo stesso brano. Perfetti Nichols e Strickland nella gestione della ritmica. Quando è la volta di Phoenix il clima generale rimane abbastanza in linea con il pezzo precedente, aprendosi con il synth e la voce della Muldrow che ricorda, nell’incipit, qualcosa dei canti tradizionali un po’ africani e un po’ indo-americani. L’intervento dei fiati regala un colore quasi colemaniano, così come nell’assolo della Benjamin ascoltiamo una sorta di ispirazione ibrida che coinvolge più o meno sullo stesso piano sia Coltrane – ascoltate quei trilli ripetuti – che giust’appunto Ornette Coleman. Quando sembra che la musica cominci ad andare in ebollizione, l’entrata del synth raffredda strategicamente il tutto. Arriviamo a Mercy, una parentesi più leggera soul-pop interpretata dalla suggestiva voce di Dianne Reeves, con quel suo caratteristico fondo laringeo appena macchiato di ruggine. Con le tastiere, l’arrangiamento orchestrale e la presenza delicata del piano, la traccia si snoda infilandosi tra il canto e l’accompagnamento di sax che ripete uno stesso modulo, caldo e avvolgente, non rinunciando ad un assolo discreto nel suo non essere invasivo né accentratore. C’è anche spazio per un accenno di scat da parte della Reeves giusto nel mezzo del pezzo e ancora verso il finale. Una grande lezione di classe da parte di tutti i musicisti e una gran bella composizione, fresca e senza smagliature.

Jubilation è in perfetta trasparenza col titolo e manifesta un’allegria festosa pur se emotivamente controllata. Qui il pianoforte si assoggetta al tocco fantasioso della pianista Patrice Rushen che aiuta il recupero di quelle atmosfere un po’ fusion tipiche del periodo anni’80-90, il tutto corroborato dalle percussioni latine di Negah Santos. Peace is a Haiku Song è una poesia letta dall’autrice Sonia Sanchez con un audio, non so quanto reale o simulato, che pare essere catturato da una conversazione telefonica. Sotto l’eloquio vocale del testo recitato compare un bell’assolo di Taylor al contrabbasso. Blast continua con il recitato telefonico della Sanchez ma i suoi versi poetici si trasformano qui in un aggiunta di colore alla musica che inizia con un ritmo marziale e suoni scorbutici di synth. Qualche accordo di piano prelude alla felice accoppiata del sax con la tromba, questa volta suonata da Roney Jr. Si arriva poi ad un lungo assolo della Benjamin e agli sporadici campionamenti vocali sul parlato della Sanchez. Con Moods ci tuffiamo con un bel salto all’indietro, verso un tradizionale be-bop sorretto dalle scansioni ritmiche assai serrate della coppia Taylor-Strickland. Alla tromba torna Evans che contrappunta il sax ed entrambi i fiati si trovano perfettamente a loro agio in questo tipo di assoli fondati su diversi cambi di tonalità, a tal punto che se da un lato pare di riascoltare la tromba di Gillespie e il sax di Coltrane, dall’altro il piano sintonizza i suoi ricordi, diciamo così di scuola, tra Ahmad Jamal e McCoy Tyner. Interessante il tema, strutturato secondo le sacre complessità del be-bop. La traccia che segue, Rebirth, pare essere stata scritta dalla Benjamin per essere dedicata alla sua famiglia. Il brano, tutto caricato sulle spalle dell’Autrice, è un moderato percorso in cui il sax procede con una voce duttile e aerea, molto pulito nella sonorità e ben accompagnato dal pianoforte, in questo contesto, quasi romantico di Gould. Di Trane avevamo già accennato in precedenza, sottolinenado il tributo, anche troppo evidente per la verità, verso il Maestro che porta il nome del brano. Mai, come in questo caso, Gould suona avvicinandosi a McCoy Tyner, evidentemente anche lui in trance devozionale. Supernova, all’interno di un athanor tutto sobbollente di suoni elettronici, si riferisce all’omonimo album di Wayne Shorter registrato nel 1969. Al grande sassofonista del New Jersey viene catturata la voce che scorre in un breve messaggio. Basquiat, ultimo brano in sequenza, rispetta il ruolo di questo artista tipicamente newyorkese, morto ormai da 35 anni, che fu una grande presenza della pittura d’avanguardia. Cosi, nell’ambito di una spinta verso l’avanti, la Benjamin ci propone il brano più innovativo del suo lavoro che deve però comunque più di qualcosa a Mingus.

Giunta a completa maturazione con il suo quarto disco da titolare, la Benjamin più che sorprenderci, si conferma una magnifica sassofonista, di grande personalità e capacità compositiva. La bellezza di questo Phoenix risiede soprattutto nella vitalità, nell’autorevolezza con cui l’Autrice trascina con sé i suoi musicisti, facendoli interagire con brillantezza ed estro. Un’artista consapevole del ruolo culturale degli Stati Uniti più giovani, quelli che guardano al fiorire di nuove tendenze, che non rinunciano ai grandi temi dell’uguaglianza tra neri e bianchi, uomini e donne, poveri e ricchi. Ci si muove nel vasto territorio dell’Utopia, questo si sa, ma restiamo fiduciosi in attesa di quell’allineamento planetario che possa far scattare il tanto sospirato cambiamento. Più che altro servirebbe un’autentica metanoia, una radicale trasformazione del pensiero. Còmpito, questo, che non spetta evidentemente alla sola Benjamin ma a tutta l’umanità.

Tracklist:
01. Amerikkan Skin (9:02)
02. New Mornings (5:01)
03. Phoenix (6:33)
04. Mercy (5:58)
05. Jubilation (6:34)
06. Peace Is a Haiku Song (3:29)
07. Blast (4:51)
08. Moods (4:58)
09. Rebirth (4:23)
10. Trane (6:42)
11. Supernova (1:25)
12. Basquiat (5:41)