R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Gli australiani Necks, dopo 35 anni dalla loro nascita come trio, giungono ora al diciannovesimo disco in studio, Travel, immersi come sempre nella misteriosa aura magnetica che emana dalla loro musica. Ci troviamo di fronte ad una band minimalista che presenta una buona dose di enigmatiche ossessioni risolte attraverso una strumentazione essenziale, magari con l’aggiunta di qualche sporadico intervento in fase post-produttiva. In termini psichiatrici potremmo definire l’agire di questo trio come una manifestazione collettiva di un disturbo ossessivo compulsivo, in cui ogni tema viene reiterato in un asintoto tendente all’infinito, servendosi di una scrittura che più essenziale non sarebbe possibile. C’è rischio di smarrirsi, ascoltando queste note, per via di una perdita progressiva del normale stato di coscienza dovuta ad un sopravvenuta e inaspettata condizione di trance. Da un certo punto di vista non c’è niente di così nuovo sotto il sole e infatti, anche se qualcuno evoca gli spettri nobili di La Monte Young o di Steve Reich, personalmente direi che i Necks si avvicinano di più a certi sciamanesimi dei Can – che però avevano un tocco più lieve – o dei tedeschissimi Neu. Tecnicamente si tratta di cellule improvvisative molto semplificate – ma non troppo! – su cui s’interviene con minimi scarti provocando un progressivo inabissamento dell’attenzione, non senza aver rescisso il cordone ombelicale con l’assetto psichico ordinario per entrare in uno stato alterato simil-ipnotico. Ancor più specificamente, i Necks lavorano seguendo uno sviluppo modale, cioè facendo musica su un’unica scala e in modo più esplicito, nel loro caso, su una sola tonica o quasi. Volendo fare gli avvocati del diavolo potremmo dire che questo è senz’altro il metodo più semplice per improvvisare, in quanto viene meno l’obbligo di tener dietro ai cambi di tonalità che normalmente si susseguono in quasi ogni tipo di musica, in particolar modo nel jazz. Ma non vorremmo essere troppo riduzionisti semplificando eccessivamente il lavoro dei Necks che sembra, in apparenza, più facile di quanto effettivamente non sia.

Viaggiare insieme al trio significa, ora come ora, non avere santi protettori perché i quattro brani di Travel durano in media una ventina di minuti ciascuno e in questo lasso di tempo i suoni del piano, dell’organo, del contrabbasso e delle percussioni, ci passano attraverso fino al punto in cui talora si crede di percepire fonemi che non ci sono, come si trattasse di vere e proprie allucinazioni uditive. In effetti, con una musica come questa può succedere veramente di tutto, anche di mollare il colpo a metà percorso, stremati e infastiditi dal clima ossessivo e ripetitivo dei brani. Tuttavia l’esperienza con i Necks, per chi non avesse mai avuto dimestichezza storica con musica reiterativa di questo tipo, potrebbe essere vissuta come una sensazione unica e decisamente originale. Ci dev’essere in effetti qualcosa di arcaico, in Australia, un sentore primitivo che evidentemente ha lasciato il segno non solo nel Cinema – ricordate Picnic ad Hanging Rock? – ma anche all’interno di questo tipo di musica, favorendo un’incursione nel lato oscuro della creatività. I tre stregoni hanno comunque un nome e sono Chris Abrahams al piano e all’organo Hammond, Tony Buck alla batteria, percussioni e chitarra elettrica e infine Lloyd Swanton al basso, elettrico e/o acuistico. Questo ultimo lavoro, Travel, dura quasi i fatidici 80 minuti che sono il limite massimo di incisione consentito dal CD ma se non vi piace né il digitale né lo streaming e siete affezionati all’analogico, allora potete dichiararvi davvero fortunati (?!) perchè questo album è stato pubblicato anche su vinile, naturalmente in doppio formato. Prima di passare all’ascolto delle singole tracce consiglierei di non farsi troppe domande sul genere di musica che si ascolterà. Non c’è una risposta univoca. Infatti c’è chi pensa possa essere una forma nuova di jazz o chi un ibrido di jazz-rock minimalista o addirittura un’evoluzione del kraut-rock degli anni ’70. Comunque sia si tratta di musica che non capita di ascoltare tutti i giorni, nel bene o nel male.

Signal inizia quasi in una forma che potrebbe essere classicamente inquadrata in una solita, usuale metodica d’incipit di un normale jazz-trio. Un robusto riff di contrabbasso accende la miccia insieme ad un moderato accompagnamento di batteria mentre il piano, una nota dopo l’altra, se la gioca muovendosi in lungo e in largo al di sopra di una scala in tonalità “Do minore”. I tasti del pianoforte sono centellinati singolarmente e più raramente a grappoli mentre la ritmica continua imperterrita il suo accompagnamento. In realtà avvengono dei minimissimi cambiamenti nella sequenza delle note di contrabbasso ma dopo cinque minuti di questo andamento obbligato, il suono di un’altra tastiera ci fa sobbalzare. Quella che al primo ascolto sembra addirittura una voce umana viene riproposta ossessivamente e sostituisce momentaneamente il pianoforte che scompare dalla scena acustica. Su entrambi i canali stereo si ascoltano suoni leggermente più sordi, come fossero sovraincisioni di colpi d’archetto sulle corde del contrabbasso. Dopo circa tre minuti e mezzo – e ci stiamo avvicinando al decimo minuto di riproduzione – ritorna il piano, sempre con la stessa scala ma aggiungendo una tantum qualche fondamentale al basso. Aumenta la sensazione di riverbero attorno alle note di piano ma a questo punto diventa difficile verificare se questa percezione è reale o non sia un prodotto della nostra mente. Al dodicesimo minuto circa, al di sotto del piano, compare una sequenza di quattro note all’Hammond, naturalmente sempre in loop. Ora il suono si è comunque impercettibilmente modificato dagli istanti iniziali ma l’abilità di questo trio sta nel fatto che non ci accorgiamo in tempo reale dei cambiamenti. La batteria sale lievemente di dinamica, i colpi d’archetto aumentano d’importanza, compaiono delle percussioni aggiuntive ad integrare i leggeri tocchi di Buck. Ricompare anche la tastiera che simula un coretto vocale. Quando la musica finisce si riemerge, letteralmente, dalla trance. Esperienza quasi trascendentale, direi, unica nel suo genere. Ma non è finita qui.

Il secondo brano, Forming, inizia con un accordo fisso, in secondo piano, dell’Hammond, raddoppiato dal contrabbasso suonato con l’archetto. Questa volta la nota fondamentale è un Sol e il piano, più o meno con la stessa metodica del brano precedente, sgocciola singole note o più raramente a piccoli gruppi. Un occasionale salto di quarta, che non cambia la tonalità di base, anima – si fa per dire – l’arcana melodia pianistica. La batteria che nei primi momenti insisteva sul timpano si orienta sempre più sui piatti, mentre il contrabbasso viene pizzicato – in aggiunta all’arco – sempre ovviamente sulla stessa nota. Ascoltando queste divagazioni modali del piano mi sono tornati in mente gli arrangiamenti di Thomas De Hartmann per i brani dell’esoterico Gurdjeff ma qui il clima è più soffocante e l’impressione è quella di trovarsi in un bagno turco, col battito cardiaco che pompa in testa. Anche qui piccoli cambiamenti si sovrappongono mentre le percussioni aumentano d’importanza, come in un rito voodoo al chiaro di luna. Anche il pianoforte predilige muoversi per accordi con rivolto, dato che la tonalità resta sempre saldamente inchiodata là dove tutto era cominciato. Altra trance, altri venti minuti e passa di acqua alla gola. Imprinting sono note di contrabbasso sfregate con l’archetto e brividi di vibrazioni d’organo immerse in un bagno di percussioni indio-americane o quanto meno a loro molto somiglianti. Qualche nota di piano elettrico arricchisce l’impiantito sonoro. Il contrabbasso sembra distrarsi maggiormente, svisando su qualche corda e infilandosi tra gli intervalli delle tastiere. Grande fascino, occorre dirlo, fondamentalmente pochi suoni ma assemblati con grande ispirazione in tonalità di Mi minore. Il batterista fa un gran lavoro perché i suoi suoni non sono solo percussioni ma diventano vere e proprie note che fanno da tramite tra piano elettrico ed organo. Più si entra tra le maglie di questa progettualità musicale e più se ne resta piacevolmente impigliati, Siamo più o meno come insetti accondiscendenti ad essere divorati dal ragno, mentre la musica s’infila subdolamente sotto pelle, parassitando la nostra coscienza. Bastano solo (!!) diciassette minuti, questa volta, perché il sortilegio si compia. E infine Bloodstream. Organo chiesastico con bordone in Fa – minore – e siamo saliti di un semitono rispetto alla tonalità del brano precedente. Si affianca il piano che disegna una corona di suoni attorno all’organo. Forse c’è una nota continua di contrabbasso ma non ci giurerei. Assente la batteria fino al minuto 05’e 30” che s’annuncia con il rullante ma non pensiate che questo si risolva in qualche ritmo ben definito. Invece il rullio va e viene e quando resta costante traccia linee di nervosa inquietudine tra l’ostinata presenza delle tastiere. Dopo una decina di minuti – dei diciotto e rotti a disposizione – la batteria si decide ad essere più evidente, tra un tripudio di piatti e tom. Il brano assume un contorno drammatico, oserei affermare quasi epico. L’archetto sfrega la corda del contrabbasso con maggiore insistenza e si termina come si era cominciato, cioè con l’organo in solitudine.

Ascoltare un disco come Travel ma direi, più in generale, prestare attenzione a The Necks, pur con tutte le resistenze che questo trio può innescare, è un vero e proprio esame sulla nostra capacità di abbandonarsi alla musica. In fondo è un po’ come osservare un quadro d’autore, dove l’occhio non segue alcun movimento esplicito ma si sofferma bensì sui particolari, sulle ombre, sulle singole pennellate per tornare poi ad osservare il tutto con uno sguardo d’insieme. Anche questa musica può essere goduta attraverso una procedura simile, prestando attenzione ai singoli suoni, ai colori suggeriti dagli strumenti ma avendo sempre presente il metamondo che questa esperienza sonica suggerisce. Notiamo infine che anche con sequenze di melodie scarnificate, pur lavorando su medesime note di fondamento, si può ottenere una destabilizzazione mentale sufficiente a farci amare tutto questo. Oppure anche, all’insegna speculare della filosofia dei contrari, a farcelo odiare.

Tracklist:
01. Signal (20:51)
02. Forming (20:14)
03. Imprinting (17:14)
04. Bloodstream (18:39)

Photo © Camille Walsh