R E C E N S I O N E


Recensione di Andrea Notarangelo

I compleanni vanno celebrati. I festeggiamenti sono importanti non solo perché servono a definire ciò che siamo, ma anche perché ci rammentano quello che siamo stati e cosa siamo riusciti a creare. C’era una volta una band chiamata Semisonic. Perché si chiama(va) così? Nessuno lo sa, nemmeno loro. Una volta ho letto su una rivista che dopo aver fatto successo indirono un concorso sul loro sito ufficiale per chiedere ai propri fan quale secondo loro potesse essere il significato di tale ragione sociale. In questo modo, durante le interviste, anziché rispondere “non lo sappiamo”, avrebbero potuto dare la miglior definizione possibile. Chissà se è vero, ma ho sempre trovato questa storia molto carina. Questa premessa solo per inquadrare i soggetti, un trio che fece centro con il loro secondo disco, un album pop in grado di mandare in frantumi le classifiche degli album e dei singoli più venduti di tutto il mondo. Il 24 marzo Feeling Strangely Fine ha spento venticinque candeline e colgo la palla al balzo per parlarvene. La band di Minneapolis, nata dallo scioglimento dei Trip Shakespeare, un gruppo che raggiunse una certa notorietà anche fuori dal Minnesota, dopo la consueta trafila dei primi demo, riuscì a debuttare sulla lunga distanza con Great Divide. Il disco, un alternative rock acerbo con piccole sfumature grunge, come andava per la maggiore in quel periodo, tra i suoi punti forti non aveva l’originalità, ma una semplicità disarmante nel riuscire a creare melodie sempreverdi che mantenevano alta l’attenzione dall’inizio alla fine (un esempio su tutti è la canzone Delicious, presente anche nella colonna sonora di Friends). Ci riprovarono poco dopo mettendo a frutto l’esperienza maturata e trovando così la chiave per accedere al Sacro Graal e creare il disco definitivo.

Feeling Strangely Fine, questo il titolo scelto, è il risultato di un processo creativo nel quale la band lavorò su circa una sessantina di bozze e dove, ragionando per scrematura, decisero di concentrarsi su ciò che avrebbe colpito nell’immediato la loro attenzione senza creare dei demo da riprendere in seguito. Si concetrarono solo su quelle idee che d’istinto percepivano come vincenti e provarono soluzioni sia in alta che in bassa fedeltà a seconda di come l’ispirazione li guidasse in quel particolare momento. In seguito, Nick Launay è stato chiamato per lavorare alla produzione del disco e la band si è occupata di registrare una ventina di canzoni in circa quattro mesi. I pezzi che videro la luce divennero poi sedici, dei quali, solo dodici entrarono a far parte della versione definitiva del disco, mentre gli altri finirono per arricchire i singoli che sarebbero usciti nei mesi successivi. Il risultato? È una miscela pop rock perfetta dove melodie assassine si innestano su pezzi ricercati e mai banali. Il disco suona semplice ma mai facile ed è questo che fa la differenza e lo rende fresco e godibile ancora oggi. Ricordo il contesto e il momento in cui venne dato alle stampe. Chi allora si ritrovò a scrivere di musica ne parlò come un “caso”, nel quale tutto andava a incastrarsi nel posto giusto. Un’opera perfetta con canzoni perfette che possono essere ascoltate in sequenza dall’inizio alla fine, qualcosa che solo pochi album consentono di fare. Ricordo come se fosse ieri la recensione di un magazine che leggevo con una certa frequenza e nella quale ogni canzone veniva definita un possibile singolo e dove si faceva fatica a scegliere la traccia più bella. Quello scritto mi trovò d’accordo, precisando però che i due punti forti vennero messi in sequenza come prima e seconda traccia e che Dan Wilson e compagni in questo non hanno sbagliato una mossa. L’apertura dell’opera è lasciata a Closing Time, pochi accordi e un intreccio perfetto di pianoforte prima dell’esplosione definitiva in un ritornello accattivante sostenuto da una chitarra distorta posizionata in primo piano. Il testo è un bel gioco di metafore, dove viene descritta un’uscita da un bar al momento della chiusura: “Apro tutte le porte e ti faccio uscire nel mondo/ Non devi necessariamente tornare a casa ma qui non puoi più stare” e la conclusione “Ogni nuovo inizio comincia dalla fine di altri inizi”. Dan Wilson in verità stava diventando padre e la canzone spensierata sul come concludere una serata in compagnia di qualcuno acquistava un’altra chiave di lettura. La successiva Singing in My Sleep, uscita qualche mese dopo, è un fulmine a ciel sereno. Inizia con un rumore che sembra ricordare quello delle astronavi dei film sci-fi e si sviluppa attraverso un tappeto tastieristico definitivo. La tastiera qui è suonata con la mano destra da Jacob Slichter che nel frattempo si occupa anche della batteria, suo strumento principe. Il protagonista della canzone spiega come creare una compilation per una ragazza di cui è ossessionato. L’idea non è originale, ma il testo sì: “I’ve been living in your cassette, It’s the modern equivalent singing up to a Capulet on a balcony in your mind / Ho vissuto nella tua cassetta che è l’equivalente moderno di cantare fino a una Capuleti su un balcone nella tua mente“. Made To Last è invece una ballad umbratile che riequilibra il mood del disco e spiana la strada alla successiva Never You Mind, qualcosa di molto vicino a quanto in seguito faranno i The Raconteurs (di Jack White e Brendan Benson).

A seguire Secret Smile, terzo singolo e per chi scrive la canzone definitiva dei Semisonic. Più che una canzone un’invocazione rivolta alla persona della propria vita, con quel recitato “Nessuno sa che tu hai un sorriso segreto e lo riservi solo a me”. Basterebbe questo per comprendere la bravura di Dan Wilson e il perché, dopo aver pubblicato All About Chemistry, terza ed ultima uscita sulla lunga distanza, è rimasto nel mondo della musica alternando prove soliste alla scrittura di pezzi su commissione per altri artisti, come ad esempio Tom Morello (Rage Against The Machine), Celine Dion, John Legend e Steve Perry (Journey). A seguire DND (Do Not Disturb), immaginato come un cartello da appendere fuori da una stanza d’albergo per passare del tempo prezioso con la persona amata, spegnendo il cellulare per “far sparire fuori il mondo intero”. In Completely Pleased proseguono i giochi di parole. Ricordando che Minneapolis ha dato i natali all’illustre genio di Prince, Wilson prova in qualche modo a fargli il verso con un testo e un cantato tra il sensuale e l’erotico. È forse il punto più debole di un album pop praticamente perfetto, ma presa a piccole dosi è una canzone che non dispiace e nella quale si apprezza il suo irriverente: “I want to see you hazy dazed and confused I want to see you come, come completely used up”. This will be my year rialza subito il livello attraverso una piacevole melodia e un’ironia creata dal racconto di un personaggio che dopo una serie di sfighe personali canta con sicurezza che questo sarà definitivamente l’anno della sua svolta. Non si sa come sia andata, ma per i Semisonic lo è stato veramente. E il disco scivola bene rispettando la ricetta e raccontando piccoli e grandi eventi del quotidiano e normali problematiche affrontate nelle relazioni di coppia, come nella successiva All Worked Out. Non manca la canzone dedicata alla California, una sorta di Eden americano, per poi concludere l’opera con la stralunata She Spreads Her Wings e la chiusura affidata a Gone To The Movies, nella quale, per quel che mi riguarda, lascia un finale aperto sulla vicenda di questi protagonisti che si sono rincorsi per tutta la durata del disco, che hanno passato momenti più o meno belli ma allo stesso modo tutti importanti.

Sarebbe ingeneroso dire che i Semisonic siano stati una band ‘one shot’, in quanto il successivo All About Chemistry non ha nulla da invidiare al suo predecessore. Un po’ come per i Supertramp, che, dopo aver dato alle stampe Breakfast in America ed essersi abbuffati di titoli e riconoscimenti, si ripeterono tre anni dopo con …Famous Last Words…, anche se a quel punto la magia del momento era passata. Forse una crescita graduale ce li avrebbe fatti ritrovare oggi ancora attivi con uscite più regolari, magari a cadenza di tre o quattro anni; poi però ci penso bene e mi rendo conto che se venticinque anni fa questo disco ha significato qualcosa, è stato proprio perché tutto era perfetto e cristallizzato in un momento specifico. John Munson, Jacob Slichter e Dan Wilson si trovavano al posto giusto nel momento giusto. Le congiunzioni astrali hanno irradiato il giusto potenziale necessario a creare qualcosa di unico. Per riprendere il titolo di questo disco feticcio, il momento specifico li ha portati ad essere in pace con sé stessi e gli ha fatto provare, per un istante, a sentirsi stranamente bene.

Tracklist:
01. Closing Time (4:33)
02. Singing in My Sleep (4:30)
03. Made to Last (5:02)
04. Never You Mind (4:24)
05. Secret Smile (4:39)
06. DND (4:12)
07. Completely Pleased (3:19)
08. This Will Be My Year (4:32)
09. All Worked Out (2:52)
10. California (5:29)
11. She Spreads Her Wings (3:06)
12. Gone to the Movies (3:52)