R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Fossimo ancora nel clima sperimentale degli anni ’60, un disco come questo del contrabbassista danese Lasse Mørck sarebbe finito in quel cabinet of curiosities di tutte le amabili stranezze musicali accumulate in quel periodo. Per esempio a partire dal titolo, a prima vista bizzarro, Imaging Places No One’s Probably Ever Been. Eppure c’è una certa logica in questa scelta, sapendo che l’album d’esordio pubblicato in precedenza nel 2017 era intitolato Imaging Places I’ve Never Been. La differenza sta nel fatto che da un livello di realtà oggettivo ma non frequentato se non dal desiderio, si è passati a raccontare una costruzione del reale, sospesa tra mito e fantasia, che parla di luoghi immaginari dove nessuno – forse – è mai stato veramente. Non per niente l’album del 2018 che precede questa sua ultima uscita, solleticava l’ambito mitologico con il titolo indicativo di The Aztec Creation Myth Suite… In effetti quanti di noi sono stati in posti come El Dorado, Atlantide, Gli Inferi – beh, forse da qui qualcuno c’è passato – o la Luna e così via? Volendo rimarcare questo gioco implementante di stranezze, mi piacerebbe far notare che persino nel cognome di questo musicista di trentaquattro anni, al di là della pronuncia nord europea della vocale “o”, solo una consonante fa la differenza da un geniale, originalissimo pianista che ha lasciato un segno profondo nel jazz… Che tipo di lavoro, in definitiva, ci troviamo di fronte? Per quanto mi riguarda, questo album è una delle opere più divertenti, simpatiche, rilassanti e stimolanti che mi sia trovato a recensire ultimamente.

Un jazz suonato seriamente bene, attraversato da continue brezze cariche di sentimentale ironia, completamente assonante e relativamente semplice all’ascolto. In questo quartetto manca il classico strumento armonico, quindi niente piano, chitarra, tastiera o altro ma un chiaro, trasparente assetto ritmico più due fiati, sax e tromba che non si pestano mai i piedi a vicenda. Non troverete calcinacci risultanti da scontri tra ottoni, inni eretici alle dissonanze, oscuri borborigmi intellettuali, bensì ritmi sudamericani, vaudeville, trombe sordinate, andamenti blues, ballate dal profumo mingusiano o addirittura risonanze ellingtoniane. Se dovessi fare inoltre dei paragoni con altri musicisti al di fuori del mondo jazzistico, avvicinerei Mørk all’esotica indolenza di un Van Dyke Parks. Il tutto con il rispetto dovuto alle belle melodie accompagnate da suoni finalmente puliti, facilmente riconducibili agli strumenti che li hanno originati. Niente elettroniche, niente synth. Nel mondo di Mørk non c’è bisogno di null’altro che un po’ di tempo da impegnare e di una sana voglia di godere un jazz amabilmente lunatico che sembra costruito attorno ad un sogno. L’album in questione può essere quindi fruito non solo dagli amanti del jazz ma da tutti coloro che si divertono ascoltando musica, indipendentemente dai generi abitualmente più seguiti. Il quartetto che ci apprestiamo ad ascoltare, oltre che dal contrabbassista figlio d’arte Lasse Mørk, vede la batteria di Snorre Kirk, Jonas Due alla tromba e Ludvig Samuelsson al sax contralto e baritono. I due fiatisti, tra l’altro, offrono un bell’esempio di relazione contrappuntistica, spalleggiandosi e legandosi empaticamente l’un l’altro quando occorre.
The Golden City, la mitica città tutta dorata, l’El Dorado raccontato dai Conquistadores, apre l’album con una melodia dall’assetto latineggiante, una specie di rumba cubana in 2/4 che invita al ballo con un contrabbasso impegnato in un semplice accompagnamento inserito tra le percussioni di Kirk. Tromba e sax duettano con una melodia dapprima eseguita in coppia, poi Due e Samuelsson partono in assoli piuttosto tranquilli che s’incrementano di complessità via via che procedono nel brano ma senza arrivare al parossismo. Uno strategico abbassamento dei ritmi e dei volumi sonori che costeggia il silenzio si presenta poco prima della chiusura, andando a finire nel progressivo, moderato crescendo finale. Un brano, in definitiva, che funge da inaspettato incipit dell’album, utile a farci intuire il tono complessivo dello stesso. The Silver Mountains è un titolo che allude ad un’altra leggenda, questa volta boliviana. Qui l’influenza latina resta più in secondo piano, discretamente nascosta tra la batteria e il ritmico contrabbasso che sembra maggiormente impegnato a fungere da filo d’Arianna per la successione dei battiti percussivi. La tromba inizialmente sordinata si muove lungo una linea melodica dai toni un po’ misteriosi. Analogo movimento spetta al sax baritono che tuttavia sembra svincolarsene maggiormente per accingersi all’improvvisazione. Secondariamente la tromba riprende fiato, questa volta molto più libera e senza sordina. Si termina con entrambi gli ottoni in un rincorrersi reciproco. Le sonorità restano asciutte, grazie (?) anche all’assenza degli strumenti che dovrebbero reggere le basi armoniche attraverso la creazione di accordi almeno a tre voci. Uno dei brani migliori è The Moon suggestionato indubbiamente da Mingus ma che conserva uno spirito tutto personale, trattenuto e delicato, con un insieme di note solitarie che paiono smarrite nella luce lunare ma che in realtà realizzano un piccolo miracolo di concisione. Si segnala un lieve brushing di batteria, sax e tromba con sordina e un contrabbasso che si avvale nel suo assolo di pochi, espressivi tocchi. Una bella sorpresa ascoltare dei musicisti che paiono intenti solo ad esprimersi sottovoce senza farsi sviare da inutili tecnicismi. Ancora una volta, su tutto, la capacità dei fiati di lavorare sui timbri e sui contrappunti per offrire un’intensa atmosfera d’intimità. Insomma, un piccolo capolavoro quasi bluesy da riascoltare più volte per godere anche del silenzio che scorre tra gli strumenti.

Underworld Rendez-Vous è un jazz più swingante, colmo di blues, che gioca sul senso molteplice del termine inglese underworld. Il suono è volutamente disadorno, tirato sempre all’essenziale. Dopo un inizio quasi in punta di piedi ed un walking-bass alla vecchia – ma efficace – maniera, il brano prende quota sui colpi ben assestati di batteria. Se la tromba, sempre con la sordina, s’incammina sui marciapiedi dei bassifondi, il sax la segue come un’ombra inquieta fino a lanciarsi in un assolo con molto swing. Il dialogo tra i due fiati continua con passo morbido e guardingo, anche quando la batteria scalcia i suoi ultimi colpi prima della fine. Bihimi (Fountain of Youth) si rifà probabilmente al mito della fontana della giovinezza, il sogno neanche tanto nascosto di tutti i vegliardi… Il brano dimostra un vitalistico fervore e le prime note tematiche lo fanno assomigliare ad una pop song che sembra rimandare al periodo anni ’50-’60, sempre con una ritmica di base dal vago sapore latino. Ma qui, più che negli altri brani, il sax contralto, questa volta, e la tromba che ha deposto la sordina, paiono essere più squillanti e si lasciano maggiormente andare negli assoli, sempre senza superare quel limite di delicato garbo che caratterizza tutto l’album. Nell’elenco dei posti poco probabili non poteva mancare Atlantide, la città sommersa di cui parla anche Platone nel Timeo e nel Crizia, qui rappresentata in Searching for Atlantis. Questa traccia è la più cupa della sequenza, innescata da un contrabbasso impegnato in un accompagnamento dentro cui i fiati cercano un accomodamento, organizzato in un territorio inatteso fatto di una miscela di blues e swing con i lampi dei piatti della batteria generosamente fatti vibrare da Kirk. Le armonie si fanno più spericolate e leggermente disarticolate, laddove tromba e sax – è ritornato il baritono – cercano una quadra oscillando su un intervallo di un tono. The Fletcher’s Blues risolleva l’umore con un tema apparentemente più leggero e quasi sbarazzino. Il sax di Samuelsson in alcuni dei suoi fraseggi assomiglia a quello di Stan Getz con una ritmica diligente ed incalzante, pronta a sostenere anche l’assolo di tromba. Il mood generale resta legato ad un blues swingante, dal tono un poco musealizzato nel ricordare certe atmosfere dixie. Pythia (The Oracle) presumo si riferisca alle pizie, sacerdotesse del tempio di Apollo a Delfi, laddove un oracolo ermetico – come del resto tutti gli oracoli – riceveva fedeli da tutto il mondo allora conosciuto. La musica è spiazzante, è un valzer lento con un bel tema malinconico dall’aria popolaresca reso da una soffice tromba che a tutto fa pensare ma non alla sacralità di un Tempio. I fiati creano un’atmosfera svagata come in uno slow degli anni’40. Forse Mørk & C. non hanno doti divinatorie ma appaiono piacevolmente e leggermente sfrontati, tracciando i contorni del loro orizzonte fiabesco, felliniano e stravagante.
Nella sua personalissima interpretazione del jazz, Mørk si espone con sonorità spoglie e spesso evanescenti. La sua è una musica mai sovrabbondante, anzi, a volte appare persino segnata da un’eccessiva sintesi formale. Posso sbagliare ma l’intenzione del musicista danese non è quella di lasciare un ricordo indelebile della sua epoca ma piuttosto quella di narrare una piccola cronaca provinciale dentro cui è facile ritrovarsi e riconoscersi nei suoi simboli.
Tracklist:
01. The Golden City (5:35)
02. The Silver Mountains (6:54)
03. The Moon (6:27)
04. Underworld Rendez-Vous (5:27)
05. Bihimi (Fountain of Youth) (4:39)
06. Searching for Atlantis (5:49)
07. The Fletcher’s Blues (4:16)
08. Pythia (The Oracle) (4:49)
Rispondi