L I V E – R E P O R T
Articolo di Paola Tieppo
È una notte non ancora buia ma decisamente tempestosa… e penso: “non saranno quattro(mila) gocce a fermarmi!”
Ho un appuntamento al Caffè Teatro Comedy Club di Samarate (VA) per ascoltare il quintetto di due autentiche leggende del Jazz italiano. In realtà la loro fama varca i confini nazionali ed io li ho già ascoltati più volte, come pure altri due musicisti della formazione, ma mai insieme. Paolo Tomelleri, vicentino, classe 1938 e una vita dedicata alla musica in varie declinazioni, compreso oltre trent’anni a fianco di Enzo Jannacci, è sempre un pacato ma avvincente intrattenitore che arricchisce le esecuzioni al clarinetto con cenni storici e curiosità sui brani proposti. Emilio Soana, mantovano, classe 1943 e prima tromba dell’Orchestra Rai di Milano per molti anni, non è sicuramente da meno ed è attualmente attivissimo nell’organico di varie big band.

Le voci esperte ma mai scontate dei loro strumenti talvolta risuonano in perfetta sincronia, seppur distinguendosi, tal altre si rincorrono alternandosi per poi ricongiungersi sul finale. Il piano elettrico di Fabrizio Bernasconi introduce armonicamente allineandosi con eleganza, mentre la sapiente e collaudata sezione ritmica di Marco Mistrangelo al contrabbasso e di Tony Arco alla batteria danno il naturale indispensabile sostegno alla struttura di alcuni fra i più conosciuti standard jazz.
La scaletta infatti si snoda toccando quasi le origini di questo mio amato stile di musica, e di vita, contrapponendo ad esempio i sinuosi echi medio orientali di Caravan (1937) di Duke Ellington, qui caratterizzato dalla sordina di Soana, alla delicatezza di Skylark (1941) di Hoagy Carmichael, che si basò su un’improvvisazione al corno di Bix Beiderbecke, sulle cui note vorrei solo chiudere gli occhi ed immaginarmi complice di un sensuale ballo lento, in un piccolo locale, come in certi film americani di quell’epoca. Ascolto pezzi meno popolari, come Stranger on the shore (1961), una sognante ballad di Acker Bilk, preceduta dalla divertita disquisizione sul preciso significato del termine “stranger” cioè “estraneo” e non “straniero”, che invece si traduce con “foreigner”, ed altri che non avrebbero davvero bisogno di presentazioni, come, inaspettato, il grande classico, pluripremiato con Oscar e Grammy, Moon river (1960) del celeberrimo compositore Henry Mancini, che non manca di incantare i presenti, riportando la memoria collettiva alle sofisticate atmosfere in bianco e nero del film Colazione da Tiffany.

Dopo circa un’ora e mezza di splendida musica, magica e intensa, e le mie labbra costantemente incurvate in un sorriso, un timido tentativo di darci la buonanotte naufraga immediatamente nella richiesta del canonico bis. Introdotto dalle parole ironicamente sfiduciate di Tomelleri sull’attuale esistenza di un mondo meraviglioso, le note di What a wonderful world (1967), reso celebre da Louis Armstrong, sembrano, ripensando al suo testo, aggiungere, se possibile, ulteriore luce ai colori decisi dell’illuminazione sul palco. Non ho portato la macchina fotografica questa sera e mi accontento di qualche immagine con il cellulare, sotto questo acceso arcobaleno artificiale. Purtroppo mi trovo a concordare che stiamo davvero vivendo in un momento storico, e quindi in un mondo, non proprio “meraviglioso”, ma di sicuro meravigliosa è stata questa serata, improvvisata quasi all’ultimo minuto e, forse proprio per questo, ancora più preziosa.
Nel frattempo, ha smesso di diluviare e, dopo le ultime chiacchiere ed i saluti, mi avvio verso casa, pensando #eiovadoadormirefelice
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