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Testo di ElleBi
Immagini sonore di Cristina Crippi

Ci sono eventi che iniziano come un semplice concerto musicale e alla fine si rivelano un’esperienza personale da conservare gelosamente nel cuore. Questo è successo lunedì scorso presso Villa Patrizia nella località brianzola di Sirtori, in cui si è svolta una delle tappe del festival suoni mobili 2014. Non è facile dare forma scritta alle emozioni che ho vissuto trovandomi a condividere un intenso viaggio a braccio fra la steppa del talentuoso cantante mongolo Dandarvaanchig Enkhjargal (Epi) e il mare del chitarrista sardo Paolo Angeli.

Si tratta di due mondi in apparenza molto distanti, ma il comune amore dei due artisti per le rispettive tradizioni, abbinato al desiderio di contaminarle in totale libertà con sonorità contemporanee, ha creato una fusione perfetta del tutto affascinante. Un incontro nato all’insegna dell’improvvisazione, frutto di una manciata di ore di prove prima di esibirsi per la prima volta insieme su un palco.

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Protagonisti di questo percorso musicale sono da una parte il morin khuur, strumento antichissimo e simbolo del popolo mongolo – da noi conosciuto come “violino di cavallo” – e il canto diplofonico di Epi, una tecnica particolare che permette di produrre simultaneamente due o più suoni distinti; dall’altra la chitarra sarda preparata di Angeli, un originale strumento a 18 corde corredato da una serie di martelletti, pedaliere, eliche e pick up e trasformato così in un ibrido tra una chitarra, un violoncello e una percussione, abbinato al tipico vibrato del canto popolare sardo.
Quando i due artisti entrano in scena si capisce già che questa sarà un’accoppiata insolita. Se infatti Paolo si presenta informale, con maglietta a righe stile “marinara” e piedi rigorosamente nudi, Epi è elegante, tutto in nero, con scarpe lucide e casacca tipica della sua terra. Ad unire i rispettivi mondi, dove spesso non arriva la lingua inglese, è un sorriso radioso che illumina lo sguardo di entrambi e con naturalezza contamina tutti i presenti.
C’è silenzio assoluto in sala e, un brano dopo l’altro mi accorgo, dando un’occhiata in giro, di quanto il pubblico sia estasiato. Addirittura alcuni come me, pur essendo seduti nelle prime file, si sporgono in avanti anche con il busto quasi a tentare di entrare con il corpo dentro quelle onde musicali ipnotiche che s’infrangono fra mente e cuore.

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E’ un richiamo quasi ancestrale la voce di Epi che, con tecnica impeccabile, prima s’inabissa con toni gutturali impensabili e poi si eleva fino a raggiungere vette angeliche. A conquistare ancor di più i presenti arriva addirittura una “pop song”, naturalmente del tutto incatalogabile, in cui i suoni della gallura e della mongolia s’incontrano gioiosamente, al punto che Epi scatta in piedi e accenna una danza in stile “febbre del sabato sera”.
Avvolta in un’ atmosfera magica, in cui anche il tempo si è fermato in ascolto di queste anime contaminanti, quasi non mi rendo conto che lo spettacolo sta per finire. Con un sorriso pieno di gratitudine mi unisco a tutti quanti per far esplodere un applauso che abbracci virtualmente due personalità davvero uniche per talento e amore per la vita, ancor prima che per la musica. Concludo rivolgendo un vero grazie di cuore a Saul Beretta, che, ogni anno, con le proposte del suo festival “suoni mobili” mi dà la conferma che essere curiosa e rimanere aperta alle contaminazioni culturali, è uno dei modi migliori per continuare a nutrire quella “bimba” che porto con me e che non vorrei mai perdere di vista…

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