Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Paolo Pozzi
Il Pending Lips, il concorso messo in piedi dalla sempre attiva Costello’s (che prima di diventare un’etichetta è stata ed è tuttora un’attivissima agenzia di promozione e booking), ha deciso di “festeggiarsi” nell’arco di due giornate (la seconda sarà a febbraio) in cui le più interessanti realtà gravitanti attorno all’etichetta si sono esibite in brevi ed intensi set sull’arco di due palchi, ricevendo speciali riconoscimenti da parte delle webzine e delle radio che da anni si occupano di un sottobosco attivissimo, nonostante il pubblico che lo segue non si possa dire propriamente numeroso.
La location è quella de Il Maglio, proprio di fianco al celebre Carroponte. Un posto di cui Costello’s ha appena iniziato a curare la programmazione artistica e che, di fatto, diverrà la sede invernale della storica venue di Sesto S. Giovanni.
Inizio col botto con i Winter Dies In June, gruppo che non conoscevo e che mi ha letteralmente spazzato via dopo solo una canzone. Hanno pubblicato un disco lo scorso anno intitolato “The Soft Century” e ne propongono quattro brani che impressionano per la loro altissima qualità. Suoni curatissimi, ottimi intrecci tra le due chitarre e le tastiere, una voce di grande espressività e un songwriting che è a metà tra i Coldplay più ispirati dei primi dischi e i Death Cab For Cutie. Grande talento nelle melodie e nella gestione dei crescendo, sono sicuramente da andare a scoprire su disco.
Subito dopo, sul palco dedicato ai set acustici, è il turno di Morning Tea. Mattia Frenna è un songwriter di grande qualità e il suo esordio “Nobody Gets a Reprieve”, targato 2014, è stato particolarmente apprezzato e lo ha portato ad esibirsi anche sul palco prestigioso del Birmingham Pop Fest di quest’estate. Avendolo già visto altre volte, la sua esibizione è l’ennesima conferma del suo talento. Tre pezzi del disco, per lui, e la nuova “10 Past 8”, succosa anticipazione del nuovo album che uscirà a febbraio e che, se sarà tutto come questa e come l’altro brano che aveva presentato in un’altra occasione, sarà certamente una cosa clamorosa.
I Dust sono orfani del loro tastierista e a giudicare da un paio di battute che fanno sul palco, la separazione non deve essere stata amichevole. Il set non ne risente, comunque. Quattro brani anche per loro, giusto per ricordare ancora una volta la grande qualità di un album come “On The Go”, uscito all’inizio di quest’anno. Ottima tenuta di palco e una grande prova vocale da parte di Andrea D’Addato, nello stile di Matt Berninger ma con un tocco di personalità che non guasta. I pezzi vanno sul sicuro e anche se manca una cosa clamorosa come “Our Alien Millenium”, col singolo “If I Die” e la title track riescono ugualmente a far capire chi sono.
Steve Howls era atteso al varco con l’ep d’esordio, dopo aver vinto l’ultima edizione del Pending Lips e devo dire che, almeno per quanto mi riguarda, non ha deluso le aspettative. La sua è una proposta intensa, quasi mistica, voce e chitarra acustica sono fusi insieme in un unicum emozionale che ipnotizza e da cui è impossibile staccarsi. Usa a tratti lo strumento come se fosse una pedal steel, percuotendolo e lasciando che il fraseggio della voce si fonda completamente con la chitarra, con una dose discreta di loop ad introdurre le composizioni. Scrittura altamente personale, la sua, unita ad una abilità esecutiva già molto alta, per un’esibizione che trascende il mero concetto di folk rock per diventare qualcosa di completamente diverso e a tratti innovativo.
Nei venti minuti a sua disposizione suona per intero l’ep e lascia una lunga traccia che, speriamo, in futuro verrà seguita il più possibile.
Gli Ishaq vengono da Castelfranco Veneto e hanno da poco registrato il loro secondo disco. Formazione atipica con violino, violoncello e tastiera che svolgono gran parte del lavoro melodico, con una chitarra acustica che fa capolino ogni tanto alternata alle percussioni. Di base, il loro è un dream pop che ricorda piuttosto da vicino i Beach House e i Mum, con il punto di forza nella voce femminile, che può anche vantare una notevole presenza. Un dato superfluo ma che se c’è non guasta di certo… Li sentivo oggi per la prima volta e mi hanno favorevolmente impressionato, anche se il loro repertorio non è di quelli che può essere fruito a dovere al primo ascolto. La conclusiva, lunga parte strumentale del brano “A Secret Story”, con violoncello e percussioni in bella evidenza, ha comunque lasciato il segno.
Di Richard J Aarden ho già parlato poco tempo fa qui ed evito quindi di ripetermi. Lo attendevo dal vivo per verificare la bontà del suo ep d’esordio ma lui sceglie di iniziare con due brani inediti, non contenuti in quel lavoro. Ottima scelta, perché mi ha dato il modo per rendermi conto che di canzoni di buon livello ne ha molte altre dalla sua, un buon auspicio per quando arriverà il momento del full length. In solitaria, privo di effetti e degli strumenti aggiuntivi che arricchivano la sua prova in studio, risulta molto più classicamente rock, con quel gusto americano tipico del miglior Bruce Springsteen.
Vivaci, coloratissimi e con grande sfoggio di bravura coi loro strumenti, i The Floating Ensemble realizzano uno degli show più coinvolgenti della giornata anche se un problema tecnico verificatosi alla fine del secondo brano li costringe a fermarsi qualche minuto. Dimostrano di essere freddi e professionali nel ripartire esattamente da dove si erano bloccati e da qui in avanti non sbaglieranno più un colpo. C’è un che di psichedelico nel loro sound, con pezzi dilatati da lunghi interludi strumentali, ma sanno anche spingere a dovere sull’acceleratore. Hanno un disco in uscita a gennaio e credo proprio che bisognerà andarselo a sentire.
“The Iceberg Theory” di Old Fashioned Lover Boy è stato uno dei lavori più belli che mi sia capitato di ascoltare nell’anno che sta per finire. È però dal vivo che il cantautorato di Alessandro Panzeri assume la sua dimensione migliore: voce, chitarra e nient’altro, perché quando uno ha delle canzoni di questo livello davvero basta poco per risplendere. Per cui nella manciata di minuti a sua disposizione incanta a dovere, giocando facile con un trittico esplosivo composto da “Burn Burn”, “Your Song” e “Smile”. Finisce qui la parte “acoustic solo” della giornata, utile per realizzare che razza di artisti possiamo vantare qui in Italia. Sarebbe meglio guardare meno X Factor e guardarsi un po’ più attorno.
I New Adventures in Lo Fi si dimostrano fedeli al loro monicker (che dev’essere sicuramente un gioco di parole sul quasi omonimo album dei R.E.M) e ci propongono un suono che è davvero “Lo Fi” e che va a pescare a piene mani nella prima metà degli anni ’90, quando gruppi come Slowdive e American Football dicevano in chiave minimale e depressiva quello che il grunge sfogava a suon di distorsioni e produzioni grezzissime. Un album e un ep all’attivo per loro, che non perdono tempo e ci deliziano con quattro canzoni di ottima fattura. Era un nome in cui mi sono imbattuto parecchie volte ma che non avevo mai avuto tempo di verificare di persona. Sono contento di averlo fatto.
Da adesso in poi, terminati i set acustici sul palco secondario, bisognerà sempre attendere qualche minuto tra un artista e l’altro, occasione ottima per rifiatare e andare a rifocillarsi al ricco buffet dell’aperitivo che nel frattempo è iniziato ad arrivare.
Il prossimo gruppo in scaletta sono gli Hic Sunt Leones, autori di un ep dalle sonorità molto black ma con una buona dose di elettronica a completare il tutto. Bravi ma continua a non essere il mio genere.
Discorso diverso per I’m Not a Blonde, il duo tutto femminile che avevo scoperto un anno fa, quando era freschissimo di formazione, in apertura al concerto milanese dei Merchandise. Da allora sono successe altre cose: due nuovi ep da tre pezzi l’uno si sono aggiunti alla loro discografia e a breve uscirà un cd che li raccoglierà tutti e tre assieme a qualche remix. Il loro pop elettronico è assolutamente irresistibile e trascinante, con canzoni che, per quel poco che capisco del genere, mi sembrano davvero superiori alla media. Usano tanto le basi ma c’è anche molto di suonato, con chitarra e tastiera che si alternano ma che sono sempre presenti. Aggiungiamo che anche in quanto a presenza scenica ci sanno fare parecchio, e possiamo capire come mai sia un’ingiustizia non vederle ad incendiare un club pieno zeppo di gente che salta e balla. Speriamo davvero che qualcuno si accorga di loro.
Cosa si può dire dei News For Lulu che non sia già stato detto? Nulla, probabilmente. La band di Pavia è una delle realtà più “internazionali” che abbiamo, una delle poche (assieme agli amici Green Like July) ad essersi fatta notare oltreoceano, dove tra l’altro hanno registrato il loro ultimo disco. Dal vivo poi sono una forza della natura, col loro rock che più che le sonorità americane predilige quelle britanniche di inizio anni ’90 (a me ricordano sempre un po’ i Charlatans) e ama talvolta giocare con la psichedelia e con il sound folk arioso di act come i Band of Horses. Sono gli unici della giornata che suonano cinque pezzi invece di quattro, ma sono talmente bravi che nessuno, ovviamente, osa protestare. Viene proposto anche un brano nuovo che, da quel che si sente, è in linea con il loro tipico sound e ci farà amare molto il nuovo album, quando uscirà.
Siamo arrivati alla fine ed è il tempo degli ospiti speciali, gli americani Hop Along, da Philadelphia. Il loro nuovo “Painted Shut” ha ricevuto recensioni entusiaste più o meno dappertutto e attorno alla band si è creata un’attenzione che francamente, dopo aver ascoltato qualche brano, mi era sembrata eccessiva.
Poi però li ho visti dal vivo e le cose sono cambiate. Sul palco sono devastanti, c’è poco da aggiungere. Le loro composizioni continuano a sembrarmi non perfettamente a fuoco, con l’impressione di essere disordinate e dispersive e quindi non sempre facilmente assimilabili. L’impatto sonoro però è notevole, con il drumming potente e fantasioso di Mark Quinlan , ben spalleggiato da un basso, quello di Tyler Long, che non fa niente di che ma che non perde un colpo. Ottimi i fraseggi chitarristici di Joe Reinhart, più presenti rispetto alla versione in studio, che donano maggior fantasia ai brani attenuando un po’ quell’effetto monolite che avevo avuto ascoltando il disco.
Ma su tutti svetta la voce di Frances Quinlan, una ragazza poco appariscente, lontanissima dai cliché delle cantanti rock, ma la cui ugola non fa prigionieri. Potentissima ma a tratti anche dolce, intensissima, drammatica e sofferta, il tutto ottenuto senza apparentemente fare il minimo sforzo.
Un set potente e compatto, il loro, animato anche da un piccolo ma rumoroso nucleo di fan, che conosce tutti i pezzi a memoria e che smentisce quindi il mio pensiero secondo cui per un gruppo del genere non ci fosse da noi sufficiente interesse. Bravi, tanto di cappello, darò immediatamente un’altra chance a “Painted Shut”…
Un happening davvero bello, riuscitissimo dal punto di vista organizzativo e artistico, un po’ meno da quello dell’affluenza di pubblico. Ma questo, ormai lo sappiamo, non è colpa di nessuno, se non di quelli che se ne sono stati a casa. L’appuntamento è ora per febbraio, quando si esibiranno le band che cantano in lingua italiana. E anche questa volta con un ospite speciale a chiudere…
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