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Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Michael Bertolasi 

Non si possono fare proclami, tracciare itinerari, ipotizzare schemi, in questo 2016 che sta finendo. La musica è in crisi, non solo dal punto di vista socioeconomico, e intravedere una via d’uscita pare impossibile. Ci salveranno le belle canzoni, indubbiamente, e gli autori che ancora sono in grado di comporre; non è abbastanza, molto probabilmente, ma per il momento ce lo faremo bastare.
In tutto questo, “La fine dei vent’anni”, opera prima dell’ex Criminal Jokers Francesco Motta, potrebbe avere avuto un ruolo positivo. È uscito a marzo e immediatamente ha mietuto larghi consensi, sia di critica che di pubblico. Da una parte sono arrivate recensioni positive e una prestigiosa vittoria al Tenco come artista emergente; dall’altra, un lunghissimo tour che ha attraversato in lungo e in largo l’Italia, collezionando in ogni dove sold out o comunque locali imballati.
Cos’è piaciuto, di questo disco? Perché, come si suol dire in gergo, è “arrivato” al pubblico più di altri pubblicati nello stesso periodo? È difficile dirlo, forse impossibile. Non serve neppure tirare in ballo il passato di questo neo trentenne, che ha militato per dieci anni in una band di culto come i Criminal Jokers già citati e ha accompagnato lungo i palchi della penisola un nome illustre come Nada.

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E nemmeno ci farebbe capire qualcosa di più il tirare in ballo un talento innegabile nello scrivere canzoni e la particolarità del suo timbro vocale che, unito ad un certo vigore interpretativo, crea una miscela senza dubbio affascinante. Allo stesso modo, servirebbe a poco (anche solo perché lo hanno fatto tutti) ricordare che a questo disco ha lavorato un certo Riccardo Sinigallia, che lo ha prodotto, ma gli ha pure dato una grossa mano sui singoli pezzi, contribuendo con tutta una serie di piccoli interventi per renderli più efficaci e presentabili.
Non servirebbe, dicevo, perché la verità in questo caso è molto più grande della somma delle sue singole parti. Francesco Motta ha il dono della scrittura e ha scritto un disco ispirato che si situa esattamente a metà tra il cantautorato classico e l’Indie rock, senza appartenere né all’una né all’altra categoria, ma prendendo da entrambi gli elementi più virtuosi e miscelandoli secondo il proprio personale criterio.
C’è dell’autocompiacimento, è inevitabile: non è un disco timido, racconta la fase cruciale della “fine dei vent’anni” (in questo periodo storico sempre più sentito dai diretti interessati proprio perché si diventa uomini tardissimo e questo scoccare dell’età biologica ricorda che ci sarebbero anche delle vite da costruire e delle responsabilità da prendere, cosa che non sempre si vuole o si è in grado di fare) in maniera diretta, senza paura, usando le parole con parsimonia, con un’abilità letteraria e una maturità sufficienti a smarcarlo da certi fastidiosi slogan cripto generazionali tipici di una certa cultura Indie (Lo Stato Sociale, da questo punto di vista, ha fatto parecchi danni).

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E dunque anche per il sottoscritto, come per gran parte della stampa del resto, questo disco è tra gli esordi dell’anno. Ma lo è ancora di più per il modo in cui è stato portato dal vivo. Perché non è scontato che si porti dal vivo un progetto. Bisogna essere capaci di farlo, avere voglia di mettersi in gioco per imbastire uno spettacolo che abbia una sua coerenza, un suo senso proprio, che non sia solo la mera riproposizione live dei brani in studio.
E così Francesco ha preso quattro amici e li ha fatti suonare per nove mesi buoni in ogni posto disponibile, dai festival ai club. Si sono fatti le ossa, si sono amalgamati e adesso sono una macchina perfettamente oliata, impensabile per un artista esordiente.
La data al Circolone di Legnano, tanto per cambiare, è sold out, c’è pure gente fuori che non lo sapeva e che adesso vorrebbe un biglietto. Francesco ha la febbre (dirà che è già la terza volta che gli succede, in questo tour) e nel pomeriggio ha annullato tutte le interviste programmate, tra cui anche quella con il sottoscritto.

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Quando sale sul palco, in effetti, si capisce subito che quelle poche ore di sonno hanno giovato: si parte con “Se continuiamo a correre” e il singer sembra attraversato da una scarica elettrica ad alto voltaggio. Si aggrappa ad uno spettatore della prima fila per allungarsi ancora di più sul pubblico e scaglia loro addosso ogni parola come se fosse un proiettile.
La band gli va dietro con grande respiro ed energia, il concerto esplode fin dalle prime battute.
È il ritmo l’elemento principale di quel che accade sul palco: le canzoni hanno un sound pieno, ma è soprattutto nell’accoppiata basso/batteria (tra parentesi, quest’ultimo è Cesare Petulicchio, già in azione coi Bud Spencer Blues Explosion) il loro fulcro dinamico, con Motta che in alcuni episodi dà una mano pestando come un matto su un tamburo (dopotutto lui stesso era un batterista e sembra che lo strumento gli manchi).
Tra i cinque del resto c’è grande affiatamento, come si nota dai sorrisi e dagli abbracci che si scambiano ogni tre per due.

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La qualità delle canzoni poi, fa il resto. Da “Del tempo che passa la felicità” a “Sei bella davvero”, da “Mio padre era un comunista” a “Una maternità”, il disco viene suonato per intero, valorizzandone tutto lo spettro sonoro, dagli episodi più cadenzati e percussivi, a quelli in cui la chitarra acustica e le tastiere escono maggiormente.
Ci sono anche due cover dei Criminal Jokers, “una band che probabilmente molti di voi non conoscono, ma che per dieci anni mi ha dato tantissimo”, spiega Francesco dal palco. E sono tra l’altro momenti in cui la band può andare sugli scudi più di prima, grazie a pregevoli momenti di improvvisazione chitarristica nei finali.
La botta più grossa la riserva per il finale, con i bis di “Abbiamo vinto un’altra guerra”, manifesto disilluso della resa di una generazione, la rabbia tribale di “Roma stasera” e l’andamento ipnotico e ossessivo di “Prenditi quello che vuoi”, a chiudere il tutto.
Non salverà la musica, questo disco, perché siamo probabilmente in un’epoca di irreversibile decadenza e il peggio temo che dovremo ancora vederlo.
Tuttavia, è bellissimo vedere che c’è in giro tanta gente che ha deciso di fare sul serio, di giocare al meglio le proprie carte senza rifugiarsi dietro l’alibi della difficoltà delle circostanze.
Proprio per questo, ma non solo per questo, “La fine dei vent’anni” è un disco importante. Chissà che anche il prossimo anno non ci riservi altri artisti così.

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