Confondo e mi confondo e non mi affeziono mai ad un’identità sola.

Articolo di Iolanda Raffaele

Un personaggio eccezionale ed eccellente, un artista di oggi, di ieri, di domani per l’attualità dei messaggi e la bellezza dei testi, in questa intervista Dario Brunori ci svela tutta la sua umanità  abbinata ad una improbabile contemporaneità.

Quando si intervista un grande artista o, comunque, un grande esponente della società le parole non bastano, si rischia di cadere nella banalità, perciò, voglio iniziare con la frase d’esordio del mondo, che è anche una tua canzone: Come stai?
Guarda, in questo momento lo sto dicendo spesso: non mi posso lamentare. Questo è un po’ un problema perché, come tu ben sai, noi calabresi ci lamentiamo sempre, quindi questa cosa mi sta dando un po’di dispiacere. Tuttavia così facendo, mi lamento di non potermi lamentare e perciò in qualche modo mi lamento. Un modo per poterci lamentare lo troviamo sempre.

Fra milioni di stelle, quale pensi sia il posto di Dario Brunori e delle sue canzoni?
Ma no, nessun posto tra le stelle, sono contento però che sono maturati i frutti dopo un percorso ed una semina abbastanza lunga, ma necessaria per potersi concretizzare. Sono felice che le cose siano arrivate nel momento giusto, penso di conoscermi e di conoscere il mio percorso, sono contento che ci sia un riscontro e spero, soprattutto, che le canzoni rimangano molto più di quanto possa rimanere io. La cosa fondamentale è che una canzone, o una qualsiasi altra opera sopravviva all’autore.

Lamezia Milano non è solo uno spostarsi fisicamente, ma anche mentalmente tra mondi e modi diversi di vivere, di vedere e di sentire. Cosa rappresenta per te questa tratta?
Quella è innanzitutto una canzone giocosa, ironizzo su una mia attitudine eccessivamente votata a vedere il viaggio così come se stessi facendo un viaggio nelle Americhe da migrante. C’era questa forma di presa in giro personale per il fatto che mi sento confuso a volte per il mestiere che faccio.  Sono un pantofolaio, per mia natura, molto casalingo e forse ho scelto il mestiere sbagliato, solo lo spostarmi mi porta un po’di confusione.


Sicuramente su un piano di lettura più approfondito c’era l’idea di rappresentare da un parte la tendenza della nostra epoca e della mia generazione, in particolare, ad esorcizzare le paure, voltando lo sguardo da un’altra parte, nel ritornello dico “con il terrore di una guerra santa me ne vado in settimana bianca”, dall’altra di rappresentare una situazione di mezzo, che vivo io e tanti come me, quella di una persona che è cresciuta in un posto piccolo, in un contesto piccolo di provincia, forse anche più antico dell’età e dell’epoca in cui abbiamo vissuto. Spesso credo che i miei anni ’80 sono stati quasi degli anni ’60 per l’ambiente in cui ho vissuto culturalmente. Tutto questo ha una parte bella, quando vado in contesti come quello milanese in cui si respira un’aria più contemporanea, dove si guarda al futuro, questo mondo dei miei nonni lo porto dentro di me ed è il filtro con cui guardo a quello contemporaneo. Accetto la contemporaneità, però, i miei occhiali e le lenti con cui la guardo appartengono ad un’altra epoca. Uno sguardo non al passato, ma del passato e forse è meglio così.
Un proverbio dice “se camminando guardi indietro c’è il rischio che inciampi”, invece a me piace l’idea che mi porto dietro qualche cosa, che mi consente sia di accettare quello che vivo, il presente, senza essere nostalgico o reazionario, sia il fatto che quella cosa ha bisogno di quella forma critica, di quegli strumenti e di quel modo di guardare il mondo proprio dei miei genitori, dei miei nonni, che mi danno un senso di umanità importante da riuscire a preservare.
A me interessa più quello, lo sguardo più umano dei paesi in cui sono cresciuto e che voglio portare nella contemporaneità.

Il tuo umanesimo viaggia attraverso queste 12 canzoni e oltre, se dovessi indicare con un aggettivo questo quarto album come lo definiresti?
Spesso l’ho definito come un album sobrio, in realtà, non lo è per gli arrangiamenti e il lavoro che è stato fatto dietro. Tuttavia, per sobrio intendo dire che il tono del disco cerca di essere molto diretto e sincero. Ho fatto a meno anche di cose che in passato mi avevano caratterizzato dal punto di vista della scrittura che era più poetica, a volte più ironica, utilizzavo degli espedienti, per mettere un minimo di artificio che comunque è spontaneo, facendo un mestiere artistico. In questo disco cerco di essere più naturale possibile, a volte anche a costo di dire le cose proprio come stanno, mi interessa più quello, che il gioco di parole, il trucco ad effetto o qualcosa che colpisce la parte cerebrale.

L’essenzialità si nota anche nella copertina, una cover grafica e non fotografica molto particolare, ma espressiva…
Sì, è stata una scelta andata in quella direzione, siccome in passato ho utilizzato fotografie, anche la mia faccia da adulto o da giovincello, questa volta volevo che anche il disco e la copertina dessero il segnale di un approccio che ricordasse più un libro, un’edizione di un certo tipo di romanzo. Mi interessava che ci fosse quello e ha funzionato, forse perché ha cambiato anche la percezione che togliendo un po’ il volume e mettendo la grafica chi la vede pensa: “ah, è qualcosa di diverso”…

A casa tutto bene tour ha abbracciato tanti posti, tante tappe: Udine, Bologna, Torino, Roma, Firenze, e anche la tua Cosenza. Suonare nella tua terra ti trasmette più serenità o aumenta il livello di tensione e l’ansia da prestazione?
Beh la seconda, paradossalmente quando sai che nel pubblico ci sono persone che ti conoscono sin da bambino, c’è un meccanismo che somiglia più al saggio di fine anno, alla recita scolastica, ti senti sotto esame nello stesso modo, non vuoi fare brutta figura con chi ti ama. Questa cosa ha un peso, ma c’è da dire che, superata l’ ansia anche un po’necessaria, perché quando non ci sarà quella non salirò più sul palco, è sempre una grande gioia ritornare a casa, ed una sensazione impagabile vedere le persone che ti hanno visto crescere riempirsi gli occhi della tua gioia.

Bravura ed esperienza, che effetto fa stare davanti ad un pubblico di tantissime persone che cantano a squarciagola una tua canzone in cui sono sia mescolate esperienze personali che universali?
E’ un’esperienza straniante. Ha un aspetto appagante della vanità di salire sul palco e il fatto che qualcuno dall’altra parte ti risponda in maniera così affettuosa, soddisfa il desiderio di attenzione che ogni artista ha. Dall’altra quando fai tanti concerti sei più concentrato sull’esibizione che su quello che stai dicendo, però, quando vedi le persone di fronte a te che si emozionano per cose che appartengono alla tua vita, ti rendi conto che si è creata proprio una condivisione. Questa cosa ti riporta un po’alla realtà, sono felice che le persone mi riportino a quello che sto cantando e non all’esibizione.

Il successo di un artista è spesso il frutto di un lavoro di gruppo, di squadra. Qual è il tuo rapporto con la band e con coloro con cui tu hai collaborato in questo percorso, sia per l’ultimo album che in generale?
Diciamo che il rapporto con le persone che lavorano con me è palese, nel fatto che sono sempre le stesse persone, sin dal secondo album in poi, ma anche dal primo.
Con i ragazzi della band è ormai un lavoro che è diventato di crescita umana e professionale, perché siamo partiti tutti con una certa dose di inesperienza che era anche bella, se vuoi, di ingenuità verso quello che stavamo facendo, crescendo via via che le cose andavano avanti. Oggi si lavora con una velocità, una capacità di interazione e di comprensione che è fondamentale per me.


Adesso basta poco perché loro comprendano qual è la strada che io voglio percorrere. Sono tutti molto bravi, vengono anche da contesti diversi da quelli della canzone all’italiana: c’è chi nasce nel mondo del jazz, chi ha fatto il conservatorio.
Questi elementi sono entrati in un modo o nell’altro in una porzione consona a quella che era in quel momento la proposta di una canzone  di musica leggera italiana dando dei colori che tradizionalmente non ci sono mai stati. Anche questa è una cosa interessante, d’altronde ho sempre pensato che i progetti solisti non lo sono mai in senso stretto, dietro c’è sempre il lavoro di più persone e infatti l’ho chiamata Brunori Sas.

A casa tutto bene non dà risposte, né certezze, ma spinge a riflettere, a guardare la realtà con gli occhi propri, ma anche con quelli degli altri. Qual è il tuo Secondo me e a cosa corrisponde? 
Mah in realtà, quando mi fanno questa domanda, perché mi è arrivata in modi diversi da altri contesti, rispondo sempre che il disco è il mio secondo me, nel senso che è la rappresentazione di tutti i personaggi che mi abitano, di tutte le situazioni che in qualche modo mi hanno suggestionato. Anche la scelta degli argomenti che ho deciso di cantare nelle canzoni rappresenta in un modo o nell’altro una sorta di media di quello che è il mio secondo me. A volte un’opinione si esprime in maniera diretta, o per via traversa raccontando una storia, ma si può esprimere anche facendo emergere più i dubbi che le certezze, quindi penso che in questo disco ci siano tutte queste componenti e alla fine la mia risposta è nel disco.

Se alla Tristezza diciamo Arrivederci, qual è la tua risposta alla Paura, magari una Canzone?
Sicuramente quella traccia nasce con l’intento di rappresentare il passaggio che ha portato a scrivere le canzoni del disco, il mio rapporto con la canzone. Un autore deve anche interrogarsi su quello che fa, come lo fa e perché lo fa, rappresentarlo in una canzone mi sembrava la cosa più giusta. È come se quel pezzo fosse un’apripista per tutti gli altri, anche se è la numero tre è stato uno dei primi che ho scritto e quando lo facciamo dal vivo mi provoca qualche brividino. Questa canzone non dico che ha esorcizzato le mie paure, perché sarebbe troppo, ma è uno dei brani che mi ha dato il la per scrivere un disco che mi sta aiutando ad affrontare delle cose, anche perché, quando fai qualcosa, è bello vedere la partecipazione, un’umanità che condivide con te le tue certezze, i tuoi dubbi, le tue riflessioni. Questo non voglio dire che sia mal comune mezzo gaudio, ma in qualche modo è consolatorio, non ti senti solo a vivere determinate situazioni…

Se il Santo è morto, Il manto è corto e La stella è d’argento, qual è la tua dimensione definitiva? Questa, o dobbiamo aspettarci altri Brunori?  Magari con il Costume da torero o da Pugile o vestito con giacca e cravatta da impiegato ordinario, ma sempre con quel sorriso folle e creativo che spinge a seguirti, a vederti in tutti i concerti, ad aspettare la prossima puntata per vedere quale sarà la tua prossima mossa?.
È questo, io devo sempre sorprendere, tu lo sai che per quanto riguarda l’immagine, i vestiti io sono un po’ il maître à penser del prêt-à-porter calabrese. Non me ne voglia Claudio Greco che è un po’ il mio vate, ma da questo punto di vista mi sono sempre distinto per camicie improbabili e di cattivo gusto, per una fisicità che è un movimento di bacino, con abiti che sono più grandi, di quaranta anni più grandi di me. Questo paradossalmente piace ed è la dimostrazione, come dico a me stesso, che una canzone riesce a far passare un’immagine improbabile. Molti sono così affezionati alle canzoni che accettano anche che ci sia un personaggio improbabile sul palco a cantarle. Finché questa cosa dura e l’imbroglio dura io vado avanti. Fa tutto parte di uno stile improbabile, per il momento sono un mix tra un agente immobiliare e un commercialista, in una foto che ho fatto mi hanno detto che sembro lo chef Bottura, quindi diciamo che mi muovo sempre tra ambiti completamente diversi, così non ho un’identità definita, che è la cosa importante. Confondo e mi confondo e non mi affeziono mai ad un’identità sola.

Sul finire Dario Brunori ci omaggia così, con una strofa di La Verità ed è subito un’emozione infinita: “te ne sei accorto sì che parti per scalare le montagne  e poi ti fermi al primo ristorante e non ci pensi più”…

Grazie a Radio Iolex per la preziosa collaborazione

Photo credits: Benedetta Balloni