Live report di Stefania D’Egidio, immagini sonore di Alessandro Pedale
È Serata di pioggia intensa il 6 febbraio a Milano, una di quelle in cui vorresti restare al caldo sotto le coperte, ma il richiamo della musica vince su tutto, anche sulla pigrizia, e così, muniti di ombrello, ci si dirige verso il Teatro Dal Verme dove si esibirà Jake Bugg per il Solo Acoustic Tour.
Non appena varco la porta del Teatro mi colpisce la bassa età media del pubblico, tra i 20 e i 25 anni, con una prevalenza del gentil sesso, e penso che magari c’è ancora speranza per la buona musica, quella fatta con strumenti in legno e non con il computer… qua e là qualche genitore che accompagna i figli.
Apre il concerto Georgie, di cui anche noi internauti sappiamo poco o niente: le uniche notizie che si trovano in rete sono relative proprio al tour con Jake Bugg.
Aspetto piacevole, viso da ragazza della porta accanto, Georgie ha una voce limpida e potente, si destreggia benissimo con la sua fantastica Martin nei 30 minuti che le sono concessi. Molto bella la cover di Be My Baby delle Ronettes. Sono certa che sentiremo parlare ancora di questa ragazza in futuro.
Alle 21.15, dopo la consueta accordatura di chitarre, arriva il momento di Jake; il teatro va riempiendosi velocemente ed è quasi sold out per l’occasione. Anche lui faccia da bravo ragazzo, con t shirt e jeans scuri si accomoda sulla sua sedia in penombra, al centro del palco. Apre lo show con Hearts That Strain dall’omonimo album del 2017; all’inizio c’è un silenzio quasi reverenziale in platea, così, tra un brano e l’altro, il menestrello rompe il ghiaccio e confessa di essere un pochino intimorito: tanto basta per scaldare l’atmosfera e convincere subito anche i più timidi a stargli dietro tenendo il tempo con le mani.
Non essendo mai stata al Dal Verme resto piacevolmente colpita dall’acustica perfetta, il luogo ideale per questo tipo di concerti. L’interazione di Jake con i suoi fans è totale, fa addirittura scegliere a loro i brani da suonare di volta in volta, quasi fosse un jukebox d’altri tempi, ed è un gradevole alternarsi di dolci ballads, in cui gli arpeggi scorrono fluidi sulle corde, e brani blues,folk e rock, a suon di plettrate furiose.
Voce un po’ nasale, per chi come me lo conosce soprattutto grazie alle hits passate in programmazione su Virgin Radio, viene facile il paragone con i due mostri sacri del genere: Bob Dylan, per la voce, e Cat Stevens, per il modo di suonare.
Tiene molto bene il palco per circa 1h e 45 min, riproponendo i suoi successi maggiori e i pezzi dell’ultimo album. Tra una canzone e l’altra sorseggia acqua, per dare un po’ di sollievo alle corde vocali, scherza con le ragazze, che dalla platea gli urlano “I love you”, si alza per consegnare di persona i suoi plettri alle fans sedute in prima fila, e chiede pure il risultato della partita della sua squadra del cuore, il Notts County: insomma più che una rockstar, sembra un compagno di liceo che suona al ballo di fine anno. C’è un’atmosfera molto intima in sala e dopo l’iniziale “Hearts That Strain” si prosegue con il ritmo folk di “How soon the dawn”, si raggiunge il picco con la bellissima “Southern Rain”, e poi via ancora con “Lightning Bolt”, “Someone told me”, “I seen it all”, “Country Song” e “Two Fingers”, forse i brani più popolari del suo repertorio, che vede all’attivo ben quattro album ed un EP in soli cinque anni, non male per un ragazzo che non ha ancora compiuto i 24 anni. Di lui stupisce soprattutto la maturità dei testi, non a caso è il più giovane artista inglese ad aver ottenuto il primo posto in classifica con un album di debutto, ad essere stato invitato con il suo gruppo nel 2012, subito dopo l’esordio, ad accompagnare in tour un certo Noel Gallagher, ad essere prodotto nel 2013 da Mr. Rick Rubin per l’album “Shangri La Studios”. Alla fine il concerto si conclude in tripudio con il pubblico in piedi per una standing ovation di 5 minuti al termine della quale Jake ringrazia e si ripromette di tornare più spesso in Italia. Speriamo mantenga la parola: il pubblico italiano ha disperatamente bisogno di musica vera per liberarsi dalle ondate modaiole di finto rap, trap o comunque si chiami quella sottospecie di musica con cui ci bombardano le radio e le riviste pseudorock dalle copertine patinate…
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