Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Andrea Furlan
La parola Imarhan, nella lingua Tamashek, parlata dall’omonima tribù Tuareg da cui provengono, significa “colui del quale mi importa”; il loro nuovo disco, il secondo della loro carriera, s’intitola “Temet”, vocabolo che in italiano suonerebbe come “connessioni”. Sono due dati interessanti, che già dicono molto di quello che è interessante sapere di questa band.
In un’epoca di globalizzazione costante, con la possibilità di accesso istantaneo a qualunque act abbia pubblicato anche solo una canzone, nel luogo più sperduto del pianeta, non fa più notizia che esistano gruppi di “rock beduino” (come sono stati affrettatamente e superficialmente definiti) che cantano in una lingua sconosciuta e ciononostante sono apprezzati in Europa e Stati Uniti.
C’è una scena molto attiva già da diversi anni e almeno due nomi, Bombino e Tinariwen, sono parecchio conosciuti anche dalle nostre parti, ai pari di altre realtà occidentali. Proprio ai secondi gli Imarhan sono legati a doppio filo: Eyadou At Leche infatti è il cugino del cantante e chitarrista Moussa Ben Abderahmane (conosciuto come Sadam) e segue la band sin da quando si è formata, ormai dieci anni fa a Tamanrasset, in quella parte di Algeria che confina con il Mali. C’è lui anche dietro la consolle di questo secondo disco ma sarebbe sbagliato dire che il sound dei cinque sia una mera scopiazzatura di quello dei più illustri colleghi.
“Temet”, come del resto anche l’esordio di due anni fa, è fortemente debitore al sound mediorientale (gli intervalli melodici e le linee vocali sono quelli) ma incorpora influenze tra le più svariate, che vanno dal Funk, al Blues, alla Psichedelia. Un incontro tra Oriente e Occidente magari non originalissimo ma senza dubbio convincente, che non ha mancato di impressionare favorevolmente gli addetti ai lavori.
Oggi i cinque algerini arrivano in Italia per la prima volta (oltre a Milano, ci sono state una data a Roma e una a Bologna) e nonostante sembra che non se ne sia accorto nessuno, loro appaiono belli contenti, pronti a regalare un grande show.
Non ci sono davvero molte persone all’Ohibò, quando salgono sul palco e attaccano con “Azzaman”, singolo e opener del nuovo disco. Ci saranno sì e no venti persone, anche se man mano che il pezzo va avanti, arriveranno anche una decina di ritardatari richiamati dal bar. Saremo massimo in quaranta, comunque, non di più. La triste situazione di un paese dove manca una vera e propria cultura della musica dal vivo e dove si va ad un concerto solo e soltanto se si conosce chi si sta andando a vedere. Inutile lamentarsi: chi c’era, ha visto un gran concerto, il resto non conta.
Sadam e i suoi compagni d’avventura sono sorridenti e piuttosto timidi, quasi a disagio nei brevi momenti tra una canzone e l’altra. Quando suonano però, l’incanto si sprigiona. Le loro canzoni sono semplici, hanno strutture lineari e si appoggiano essenzialmente sul lavoro delle percussioni e su quello delle chitarre. Ci sono episodi che vedono le prime risaltare maggiormente, che è quando se ne occupano due membri della band. In altre, quelle dal feeling più rock, la batteria traina la sezione ritmica ma l’elemento percussivo è sempre presente, tanto che alla fin fine è il ritmo il vero protagonista dello show.
Le chitarre sono due, equamente divise tra ritmica e solista: Sadam si occupa di quest’ultima, oltre a cantare, e i suoi fraseggi, pur molto essenziali, totalmente privi di virtuosismo, si alternano con linee vocali salmodianti, talvolta doppiate dalle seconde voci.
L’atmosfera si scalda piuttosto in fretta e l’impatto è notevole, nonostante loro siano piuttosto ingessati sul palco.
Dalla loro, dopotutto, hanno un repertorio di sicura qualità: le varie “Alwa”, “Tamudre”, “E Had Wa Dag” (davvero irresistibile quest’ultima) incendiano l’atmosfera col loro ritmo funkeggiante e desertico, grazie anche al contributo di frasi di chitarra dirette e coinvolgenti, che conferiscono ai brani una grande carica melodica.
La maggior parte dei pezzi proviene da “Temet” ma non mancano le incursioni nel vecchio repertorio: “Assossamach”, “Tahabort” e soprattutto “Imarhan”, che è ancora il loro pezzo più conosciuto, funzionano anch’essi benissimo e mettono in evidenza il fatto che tra il primo e il secondo disco ci sia una sostanziale continuità di fondo.
In fin dei conti, se proprio dobbiamo trovare un difetto, è che il sound della band, pur molto vario a livello di sfumature e accorgimenti utilizzati da un brano all’altro, è sempre più o meno quello. Non c’è una grandissima varietà stilistica tra una canzone e l’altra (anche per via del modo di cantare di Sadam) e questo, in futuro, potrebbe rischiare di penalizzarli.
Per il momento non è un gran problema: i nostri suonano un’ora e in quell’ora ci si diverte tantissimo. Il finale, affidato alla scatenata “Tumast” riesce a smuovere anche quelli che fino ad ora erano rimasti più freddini e si capisce, dai sorrisi che si scambiano tra loro e con le prime file, che è nata una qualche connessione.
Niente bis, però. Abbandonano gli strumenti, salutano gentili e timidi così come sono entrati e se ne vanno. Ci proviamo, a chiamarli indietro ma niente da fare. Va bene così. Concerto intenso e coinvolgente, da parte di una band che può ancora crescere tantissimo (suonano bene ma non sono sembrati del tutto padroni del palco), se riuscirà a rendere più varia la proposta e a tenere alta la qualità dei brani.
“Connessioni”, dicevamo: sarà anche retorico, ma che un gruppo parta dalle proprie origini per comporre musica non può che essere un bene: “La connessione con la musica può servire a rilanciare la lingua madre, e il linguaggio comune può favorire l’incremento di connessioni tra le componenti di una comunità che ha bisogno di ritrovare unità.” hanno recentemente dichiarato in un’intervista. Sembra ambizioso, per delle piccole cose quali sono le canzoni, ma forse può rappresentare un inizio, in qualche modo.
Rispondi