Articolo di Luca Franceschini

Fare un report del Primavera Sound è impossibile per una persona sola: nei cinque giorni che di fatto dura il festival (anche se poi quelli veri e propri sono tre) ci sono circa duecento concerti su una decina di palchi diversi ed è evidente che essere presenti vuol dire non solo godersi un sacco di belle esibizioni, alcune anche difficilmente replicabili dalle nostre parti, ma soprattutto essere disposti a perderne qualcuna. Per carità, è la logica di ogni festival, succede addirittura al Mi Ami ma è evidente che a Barcellona, date le dimensioni dell’evento, la cosa sia diffusa a livello esponenziale.
Questo è il luogo in cui puoi scoprire che alcuni dei tuoi gruppi preferiti passeranno di lì e realizzare che non riuscirai a vederli. Questo è il luogo in cui vedi gli Slowdive che stanno per iniziare il loro concerto ma tu saluti gli amici e te ne vai sotto il palco di Lorde perché, a conti fatti, la band di Rachel Goswell negli ultimi tempi è più facile beccarla. Lo scrivo ogni anno ma semplicemente perché ogni anno mi colpisce: esistono pochi luoghi come il Primavera, dove ci si può immergere dalle cinque del pomeriggio alle cinque del mattino e allo stesso tempo avere l’impressione di essersi persi tutto.
Questa era la mia quarta volta e andando a recuperare le cose che ho scritto in passato, mi sono reso conto che, per un curioso intreccio di circostanze, è stata l’edizione dove ho visto più roba. Ho guardato in tutto 33 concerti, 28 dei quali dall’inizio alla fine. Ragion per cui sarebbe tedioso, per me e per chi legge, mettersi a fare un report di ogni singola band. Ci ho provato in passato, mi sono anche divertito ma, a rileggerli adesso, quei pezzi mi sembrano noiosissimi esercizi di stile che hanno l’unica utilità di mantenere viva la memoria anche quando certi dettagli me li sarò dimenticati.

Molto meglio, dunque, stilare una classifica delle cose che più mi hanno colpito, di tutti quei momenti che io considero indimenticabili e dire due parole per ognuno. La classica domanda che ogni tanto qualcuno ti fa: “Sei stato al Primavera? Chi è che ti è piaciuto di più?”. Ecco, quella cosa lì. Che non è detto che sia più interessante per chi legge ma se non altro è più semplice da scrivere e potrebbe anche avere un certo senso. Avvertenza: impossibile stilare una classifica vera e propria. È stato già difficile selezionare dieci show e indicarli come migliori di altri. Ricorro perciò all’ordine cronologico, che è sempre un’oggettività che salva.

SPIRITUALIZED

Spiritualized: Sembrerebbe che abbiano un nuovo album in cantiere ma la band di Jason “Spaceman” Pierce è da tempo un gruppo da pochi eventi ben selezionati. Ragion per cui la notizia che avrebbero preso parte alla serata del mercoledì, quella che apre il festival e che normalmente è caratterizzata da concerti gratuiti e da altri riservati ai soli abbonati, è stata di per sé piuttosto clamorosa. Aggiungiamo che la location prescelta era il famoso Auditori Rockdelux, che gode di un’ottima acustica, che la band britannica si sarebbe esibita in compagnia di un coro e di un’orchestra, e avrete un’idea dell’ansia che si respirava alla vigilia. Evento destinato ai soli possessori di abbonamento, previa registrazione qualche ora prima, mediante l’acquisto di un biglietto d’ingresso al costo simbolico di 2 euro (e qui non vi dico i drammi per riuscire ad arrivare in tempo). C’era aria da grande occasione ed effettivamente è stato così. Anche se non suonano spesso, i cinque erano in palla e affiatati, l’interazione tra gli strumenti elettrici e l’orchestra ha creato un Wall of Sound di enorme potenza (merito soprattutto dei fiati e delle chitarre elettriche, quasi sempre presenti nei tappeti sonori delle canzoni) che ha valorizzato in pieno un repertorio che da sempre si presta ad essere arrangiato in questa maniera (in studio lo hanno fatto parecchie volte); il coro, poi, ha accentuato ancora di più quella componente gospel da sempre presente nel sound dei nostri e quando tutti questi elementi venivano combinati insieme, l’effetto risultava decisamente notevole. Aggiungiamo che il repertorio della band non ha mai subito cali di sorta, che la setlist proposta è stata praticamente un lungo elenco di classici, e avremo un’idea del perché questa esibizione sarà ricordata a lungo. Bellissimo nella sua semplicità il gioco di luci, che ha di fatto rappresentato l’unica animazione presente, dal momento che il gruppo è stato più che altro concentrato sui propri strumenti, con Jason Pierce sul lato destro, seduto con la sua chitarra a cantare davanti a un leggio. Un’ora e mezza di bellezza inaudita, a tratti quasi irreale. In sala stanno tutti zitti, qualcuno piange, gli applausi alla fine sono quasi liberatori. È stato uno dei più bei concerti della mia vita e non sto esagerando. Dopo una cosa così, andarsene a casa non sarebbe stato neanche così assurdo.

NICK CAVE

Nick Cave and the Bad Seeds: È scontato, lo so. Il suo nome era tra i più grossi di quelli in cartellone e lui è uno dei migliori performer oggi in circolazione, con una band che, nonostante sia cambiata molto nel corso degli anni, è rimasta di primissimo livello. Dopo aver visto due dei concerti italiani di novembre avevo intenzione di snobbarlo per dedicarmi ad altro. La programmazione oraria, però, ha fatto sì che in contemporanea alla sua esibizione non vi fosse nulla di così irrinunciabile per me. E dunque eccomi sotto uno dei palchi principali, in una situazione che, dalle 22 in poi, normalmente diventa molto ingestibile. Lo spettacolo ricalca a grandi linee quello di quest’autunno, anche se accorciato e in parte ritoccato per venire incontro alle esigenze di un festival all’aperto. Vengono ripresi due classici come “Do You Love Me?” e “Deanna”, recuperati dagli archivi “Loverman” (che non veniva suonata da vent’anni almeno) e la meravigliosa bside “Come Into My Sleep”, che da sola di fatto valeva la presenza. Per il resto, è stato un altro meraviglioso concerto del “Re Inchiostro”, come lo chiamano in molti. Potente, suggestivo, evocativo, magnetico. Meno incentrato sul dolore rispetto alle date indoor, più liberatorio in alcuni passaggi, ma con il cantante sempre ben intenzionato a donarsi al suo pubblico (non sono mancate le passeggiate tra la folla o l’invasione di palco sulla solita “Stagger Lee”). E con una band che suona magnificamente, supportata da suoni nitidi e potenti (cosa non sempre scontata sui due main stage). Il risultato è che, più o meno, non vola una mosca: il silenzio durante “Girl in Amber” è, almeno dalle mie parti, quasi straniante. Alla settima volta che lo vedo non avrei mai pensato di emozionarmi ancora. Che sia successo, dice più della sua grandezza che del mio sentimentalismo…

Josh T. Pearson: L’artista texano è stato annunciato in cartellone all’ultimo momento, nell’ambito della rassegna dell’Hidden Stage, che quest’anno, al posto di essere uno scantinato da 700 posti in cui si accedeva solo facendo una lunga coda pomeridiana sotto il sole, è stato trasformato in un palco vero e proprio. Meglio così, visto che in tal modo possiamo goderci Josh T. Pearson senza particolari patemi. “The Straight Hits!”, la sua seconda prova solista, è arrivata a sette anni di distanza dal precedente “The Last Country Gentleman” e ci ha presentato un artista alle prese con un mutamento d’identità al limite della sindrome bipolare. Via la barba da Amish, via le lunghe e prolisse narrazioni Folk, dentro un ensemble elettrico e canzoni da tre minuti o poco più, che si muovono tra Country e Rock, con una smaccata attitudine “Straight” (nel senso di dritta al punto); parola che, come da programma, è presente nel titolo di ciascuno dei dieci brani in scaletta. Josh si presenta con la sua band da quattro elementi, completamente sbarbato e ossigenato in maniera imbarazzante. Look a parte, il suo è un set energico e musicalmente ineccepibile, con tante chitarre elettriche e una tromba ad abbellire le ritmiche con fraseggi preziosi. I pezzi del nuovo album si confermano bellissimi anche in sede live, mentre la vera sorpresa è la rivisitazione di “Sweetheart, I Ain’t Your Christ” e “Woman, When I’ve Raised Hell”, due brani del disco precedente che proposti in versione elettrica risultano più scorrevoli e nel complesso funzionano meglio. Tra una canzone e l’altra scherza col pubblico, col suo accento del Texas e la sua ironia burbera di chi, sotto sotto, è stracontento di essere lì. Si diverte, gioca con la tradizione in maniera sfacciata, senza mai prendersi troppo sul serio ma facendo il tutto meravigliosamente bene. Indimenticabile.

FATHER JOHN MISTY

Father John Misty: Mr. Tillman arriva al Primavera proprio il giorno della pubblicazione di “God’s Favorite Customer”, un nuovo album uscito quasi in sordina, visto che non è passato neppure un anno da “Pure Comedy”. Dal vivo lo avevo già visto e più o meno sapevo cosa aspettarmi. Il secondo dei palchi principali è affollato di musicisti, visto che oltre alla sua band c’è pure un’orchestra di una quindicina di elementi, in compagnia dei quali verranno eseguiti tutti i brani. Ci sono già diverse cose del nuovo album (che a parte i due singoli, non avevo ancora ascoltato) ma non mancano le cose più amate come “Chateau Lobby #4”, “Total Entertainment Foverer” e la conclusiva, terremotante, “The Ideal Husband”. La sua è una proposta classica, probabilmente fuori moda, a tratti anche stucchevole. Eppure nella dimensione live risulta molto coinvolgente, con la sua voce espressiva e la band che dà ai pezzi un tiro molto spesso assente dalle versioni in studio. L’orchestra non è sempre fondamentale, considerati i volumi non eccelsi e la confusione nell’impasto sonoro. Rimane a conti fatti uno dei live migliori della tre giorni, per carica emotiva e intensità. Ecco, magari le nuove canzoni sono leggermente inferiori alle precedenti ma è un particolare che nell’arco di uno spettacolo così si nota poco. La verità è che l’ex Fleet Foxes ha carisma da vendere e sono doni che in situazioni come queste pesano eccome.

THE NATIONAL

The National: La band dell’Ohio è stata criticata da molti, in questo Primavera. Ho letto e sentito diversi commenti negativi da parte dei presenti e quasi tutti si incentravano attorno alla prova sottotono del cantante Matt Berninger e al fatto che il contesto eccessivamente dispersivo del Mango Stage non avesse valorizzato una proposta musicale molto più adatta agli spazi raccolti. La maggior parte dei commenti proviene da gente che li ha visti molto più di me, quindi può darsi che abbiano ragione loro. La mia versione però è diversa: Matt ha cantato divinamente e il resto del gruppo si è prodotto in settanta minuti assolutamente impeccabili, con i fratelli Dessner impareggiabili nei fraseggi chitarristici e la batteria di Bryan Devendorf che è andata molto vicino alla perfezione divina.
Una scaletta forse troppo telefonata (con “Rylan” unica rarità presente) ma i nuovi pezzi in sede live sono magnifici, in particolare una “Walk It Back” che è riuscita a zittire anche gli spettatori più molesti (almeno dov’ero io). Non lo so, probabilmente è un giudizio un po’ troppo da fan ma sono uscito dalla loro esibizione in estasi e perfettamente appagato. Per quanto mi riguarda, il miglior gruppo rock attualmente in circolazione.

IDLES

IDLES: Quello della band di Bristol era uno dei concerti del festival che non mi sarei perso per niente al mondo. Il loro “Brutalism” è uno di quei dischi che ha riportato in auge le chitarre e un modo di suonare selvaggio e iconoclasta, molto Punk e molto British. Nulla di nuovo sotto il sole ma le canzoni le hanno e Joe Talbot è un frontman pazzesco. Suonano alla una e mezza di notte davanti a un mare di gente che riempie l’area antistante l’Adidas Stage, quello delle proposte più estreme. Dire che hanno spaccato tutto parrebbe un eufemismo ma è esattamente così. Potentissimi, con una presenza scenica da paura, il loro è un massacro che dura lo spazio di cinquanta minuti ma che non lascia sopravvissuti. Ero in prima fila e la transenna mi ha risparmiato dall’essere spazzato via dal pogo furibondo che ha infuriato dalla prima all’ultima nota. A novembre torneranno dalle nostre parti, probabilmente con un nuovo album da promuovere. Perderseli sarebbe davvero imperdonabile.

Confidence Man: Sono uno di quei gruppi che ho scoperto spulciando il programma in cerca di vuoti da riempire. Che poi sono saliti sul palco alle tre, quindi si sarebbe anche potuti andare a letto, direte voi. Ma la proposta del quartetto di Melbourne, fresco autore di “Confidence Music For Confident People” mi aveva entusiasmato e avevo deciso che me li sarei visti. Sinceramente non saprei dire quanto della decisione di inserirli tra i migliori dieci di questo Primavera sia dipeso dalle avvenenti doti della cantante Janet Planet (che assieme al suo collega Sugar Bones costituisce la coppia frontale di questo divertente ensemble). La ragazza ha senza dubbio tutto ciò che occorre per catalizzare l’attenzione ma sarebbe ingeneroso definirlo l’unico punto di forza del gruppo di Melbourne: lo show è studiato nei minimi dettagli, con coreografie e cambi d’abito sempre molto efficaci. Lo spettacolo lo fanno le due voci ma Clarence McGuffie (Synth) e Reggie Goodchild (batteria; sono ovviamente tutti pseudonimi) suonano con addosso un velo nero che ne copre i tratti somatici e questo aumenta il senso di mistero. I brani non sono niente di che, sembrano un incrocio tra dei Sofi Tukker più sofisticati e degli LCD Soundsystem più semplicistici. Eppure, la carica che trasmettono e la presenza scenica debordante dei due frontman fa sì che non si riesca proprio a stare fermi. Non so che futuro avranno ma i consensi che stanno mietendo li trovo tutti assolutamente meritati.

LIFT TO EXPERIENCE

Lift To Experience: Di nuovo Josh T. Pearson, chiedo scusa ma non posso farci niente. La reunion della sua vecchia band, che ha registrato un solo disco nel 2000 e che si è sciolta lasciandosi dietro un alone quasi da culto misterico, era uno di quegli avvenimenti da non perdere, perché non c’è in ballo un vero e proprio tour ed è difficile che possano ricapitare in giro. Il loro Post Rock cantato è massiccio, elegante e spirituale come l’anima del suo leader, che alle prese con queste canzoni sembra quasi un’altra persona, rispetto a quella vista il giorno prima. I tre non suonavano assieme da tempo ma se non ce lo avessero detto non ce ne saremmo accorti. Un concerto elettrizzante e straordinariamente evocativo, che vivo quasi in apnea e da cui riemergo solo quando il palco è ormai vuoto. “The Texas Jerusalem Crossroads”, un unicum nel panorama musicale contemporaneo, rivive in una veste nuova e si dimostra più attuale che mai. Probabilmente è solo revival ma di fronte a tanta bellezza ce ne freghiamo.

LORDE

Lorde: David Bowie disse che era il futuro della musica e Bruce Springsteen aprì i due concerti in Nuova Zelanda del 2014 con una versione acustica della sua “Royals”. A un anno dall’uscita di “Melodrama”, il suo secondo disco, possiamo dire che di gonfiato, nel fenomeno Lorde, c’è ben poco. Rispetto alla leg indoor di quest’autunno, l’allestimento è un po’ più ricco: ci sono dei filmati al posto delle sculture luminose e sette-otto ballerini che disegnano coreografie in una buona metà dei brani. Il live, che non mostra nessuna sorpresa nella scaletta, è sicuramente migliorabile: ci vorrebbe una band più numerosa e delle coriste vere, per valorizzare al meglio quello che a conti fatti è un repertorio di livello assoluto. I suoni ancora una volta non sono impeccabili (i bassi sparano troppo) ma lei è meravigliosa come sempre e da sola tiene su l’intero concerto. La versione piano e voce di “Liability” è da antologia mentre la conclusiva “Green Light” riesce a far saltare anche i bicchieri di birra, in una delle scene a più alto tasso di entusiasmo che abbia mai visto da che vado in giro per concerti. Artista vera ma, allo stesso tempo, non ha perso una certa aria da ragazzina timida e incredula per tutto ciò che le sta succedendo. Ho fatto un’ora di attesa (che qui è un’enormità) per vedermela dalla quarta fila e non avrei potuto essere meglio ripagato.

DEERHUNTER

Deerhunter: Bradford Cox e compagni al Primavera sono degli habitué. Suonano più o meno un anno sì e un anno no e in effetti me li ero già goduti nel 2016, quando però si erano esibiti nel tardo pomeriggio su uno dei palchi grossi. Questa volta sono di scena alla una sul Ray Ban Stage, probabilmente il posto migliore dove gustarsi un concerto. Da “Fading Frontier” è passato un po’ di tempo e difatti la setlist è ricca di pezzi nuovi, che ad un primo ascolto si confermano validissimi, zeppi di quei fraseggi strumentali dal sapore psichedelico che ce li hanno fatti amare negli anni. Concerto splendido, con una delle rese sonore migliori di tutti e tre i giorni. I dieci minuti della conclusiva “He Would Have Laughed” sono la ciliegina sulla torta di una band che quando è lanciata a briglia sciolta non ha rivali e che al momento attuale può permettersi di fare quel che vuole.

Ce ne sono stati altri, di momenti emozionanti: i concerti sotto il sole di Ezra Furman e Peter Perrett, indiavolato e irriverente il primo, elegante e maestoso il secondo; le Warpaint, sempre bellissime e in stato di grazia; il folle ma riuscito connubio tra Black Metal e Gospel di Zeal & Ardor; i Ride, che vedo solo per una mezz’ora ma che mi sono sembrati davvero in forma, nonostante gli anni; il devastante show dei Carpenter Brut, all’insegna dei vecchi Horror Splatter degli anni ’80, un set talmente adrenalinico che mi ha cancellato di colpo tutta la stanchezza, nonostante fossero le quattro del mattino. E potrei continuare. La verità è che dal Primavera è impossibile andar via delusi. È tanta l’offerta e tale la qualità, che se si è minimamente aperti si troverà senz’altro la proposta che possa soddisfare. Del resto stiamo parlando di un posto dove gli Arctic Monkeys fanno il record di presenze ma dove contemporaneamente a loro ci sono almeno altre quattro proposte alternative tra cui scegliere. E un festival dove si può prescindere dagli headliner non può che essere un festival serio, per quanto mi riguarda.

Photo credits:
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