Intervista di Nadia Merlo Fiorillo

Cinque personaggi per un concept Ep nato con e per il teatro. Cinque storie a firma Gianluca Montebuglio, che si racconta a specchio in un intimismo da provincia esistenziale. Un pretesto per fare musica? No. È tutto bellissimo consegna al pop-rock una cinquina di canzoni che impugnano forte il testimone di un cantautorato genuino.
Una prima prova su disco che al songwriting accosta un buon parterre di influenze musicali: dal synth pop anni ’80, all’alt rock italiano della scena bolognese anni ’90, passando per il country alternativo di una Tucson a cavallo dei 2000.
Un concept Ep, quello di Montebuglio, che nell’era della musica liquida, dei dischi frazionati e delle tracce isolate da consumare online richiede un tipo di ascolto diverso. Insieme a un approfondimento col suo (cant)autore, con cui ho fatto due chiacchiere in questa intervista.

Un concept Ep che nasce in tempi di musica liquida. È questa la tua idea di cantautorato?
Non lo so. Non ho ancora capito cosa intendo per cantautorato. So che hai perfettamente ragione a parlare di musica liquida, so che liquidità è un termine capace di evocare in modo istintivo ed esaustivo – nella sua sintesi – il periodo in cui ci troviamo, in cui ci troviamo da tempo, a dirla tutta. So che “È tutto bellissimo” è venuto fuori molto, molto lentamente. Probabile che questa lentezza abbia donato al progetto una certa fissità. Ho lavorato sotto dettatura del tempo, arrivando alla pubblicazione solo nel 2018, quando la canzone più datata risale al 2012. Tutto ciò è dipeso anche dalla quantità di energia che ho potuto riservare al progetto in questi anni. Vari trasferimenti, il lavoro di pubblicitario, la pazienza nel trovare davvero le persone adatte: quando ho capito che avrei dovuto fare con lentezza, ne ho approfittato. Ecco. Quello di lavorare per tematica, per concept, è una cosa di cui non riesco a fare a meno. Non so fare diversamente, almeno per ora. Quindi sì, probabile stia dando la risposta: per adesso è questa la mia idea di cantautorato. Farmi sedurre da un tema, da uno spazio di significati, storie e persone, e approfondirlo fin quando non lo sento compiuto. Credo vada così.

Scorrendo il disco secondo la tracklist, ho sentito sonorità in progressione quasi cronologica. Electropop ‘80, alt rock ’90 alla Massimo Volume, folk americano in stile Calexico (’90-2000). Sono queste le influenze nella tua musica?
Quelle che citi sono tra le mie influenze, sì. In particolare Massimo Volume e Calexico. Con i Massimo Volume ho un rapporto musicale ambiguo: mi affascinano e mi disturbano contemporaneamente, e in parte le due cose sono legate tra loro. Dai primi dischi dei Calexico – ma anche da Algiers – mi sono invece lasciato trasportare. Era un sound per me, fino a quel momento, poco conosciuto perché non nelle mie corde. Non è facile affidarsi al passato, portandolo al presente senza apparire forzatamente vintage. E i Calexico riescono in questo. Poi ci sono i Wilco, se vogliamo continuare nell’ambito americano. Ma il grosso credo di averlo preso dall’Italia: ho dato sempre un’importanza istintiva alle parole in musica e l’italiano è la mia lingua.

Dal pop-rock di oggi, invece, cosa prendi e da chi maggiormente?
Credo nulla o quasi, tolti forse i Virginiana Miller. E a dirla tutta, questa influenza non l’avevo colta a fondo, ma mi è stata fatta notare da chi ha ascoltato in anteprima il disco e poi, effettivamente, confermata in altre recensioni. Che buffo, proprio non ero riuscito a carpire da me questa influenza. Per il resto, mi piacciono diversi progetti attuali, ma nessuno di questi rientra nel pop-rock, temo.

Hai vissuto per qualche anno a Bologna. E penso a Dalla, a Guccini, a Bersani, a Carboni, a Cremonini. Ma anche a Emidio Clementi. Nella geografia musicale di questo disco quanta geografia esistenziale c’è?
Che bella, questa domanda. Sì, le due geografie in alcuni punti si incontrano. Gli anni bolognesi mi hanno portato, in effetti, ad avvicinarmi ancora di più ad artisti che sentivo già miei. Penso a Dalla, Clementi e Bersani, tra quelli che citi, e aggiungo i Saluti da Saturno, vecchio progetto di Mirco Mariani. Tra l’altro, salvo Dalla – per ovvie ragioni – per caso ho incontrato tutti gli altri. Con Mirco Mariani ci furono un paio di incontri per parlare di una sua produzione. Non se ne fece nulla perché dopo qualche mesi tornai in Campania. Una volta qui, la geografia musicale è tornata a farsi viva: ho pubblicato con Octopus Records, etichetta di Giuseppe Fontanella, chitarrista dei 24 Grana. E i 24 Grana sono stati coloro che sono riusciti a coniugare il napoletano a un approccio musicale che già adoravo. Insomma, mi hanno aperto a nuove connessioni. Anche se non ho mai scritto in lingua partenopea, sapere che c’è stato chi ha saputo farlo in quel modo, mi piace.

Passiamo ai testi. Noto una ricercatezza semantica che abbonda di metafore. Piuttosto controcorrente rispetto alla musica attuale, piena di slang diretto e giovanile. Qual è il tuo pubblico e a chi canti le tue storie?
Vero. Provo, lentamente, a creare uno spazio linguistico più mio possibile e per farlo evito le varie forme di slang. Resto affascinato dall’oralità scritta, sia chiaro – e ciò credo sia riscontrabile in quello che scrivo – ma continuo a pensare che non basta affidarsi a forme dirette per essere leali a sé stessi. La lealtà a me stesso è passata anche per strutture semantiche meno schiette. Del mio pubblico ancora non ho capito bene cosa dire o pensare. Ancora non mi è chiaro davvero, ma ho intuito nei vari live che se ci sono persone che apprezzano sono quelle persone pronte a metterci attenzione, un’attenzione di cui sono onorato e che provo a contraccambiare. E con ciò rispondo anche alla seconda parte della domanda: canto per chi vuole conoscere una trama, per chi è pronto ad accogliere magari un confronto con una storia. E, detta come va detta, degli altri non saprei cosa farmene. So di non essere adatto a un ascolto distratto, so che non cerco soluzioni musicali, melodiche e testuali per forza leggere o intuitive, e questo lo dico per una consapevolezza cresciuta nel tempo, una consapevolezza che è giusto tenere in considerazione proprio per continuare a rispettare chi ha voglia di ascoltare.

La traccia che chiude l’Ep – Cose blu – ha una struttura bifronte. È una nursery rhyme che esplode in uno strumentale post-rock. La sua forma rassicurante e inquieta riassume un po’ il senso di tutto l’Ep?
Decisamente sì. Quella traccia è nata per caso, un giorno prima di fare una data a teatro con Ivano Russo, quando “È tutto bellissimo” era solo un reading performativo. Avevo già il testo, ma fino ad allora lo suonavo su una struttura da marcia: una cosa oscena a ripensarci ora. Ma quelle parole mi piacevano, le sentivo mie. Allora proposi a Ivano di cantarle come un girotondo. Aprimmo con quella canzoncina quella data e le altre a venire. Quando entrai in sala per i provini, con Lorenzo de Gennaro – mio produttore e co-arrangiatore – Cose blu non sapevo se inserirla o meno, perché non avevo ancora capito come arrangiarla per davvero. Stavo per suonarla solo chitarra e voce e usarla come traccia nascosta, quando mi venne in mente una cosa: mi ricordai di un filmato del Grande Fratello durante il terremoto de L’Aquila del 2009. Chiesi a Lorenzo di rivedere quel filmato e decidemmo di estrarne l’audio. Quell’audio divenne il ponte tra la parte nursery e l’esplosione post-rock. Quella dolcezza tenuta di continuo sotto scacco dall’imminenza dell’ineluttabile credo rappresenti bene tutto il progetto, sì. Credo proprio di sì.

So che hai già messo mano a un nuovo disco e pare sarà diverso da È tutto bellissimo. Ce lo anticipi in tre sole parole?
Nudo, aperto, necessario.