Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Riccardo Diotallevi per Shining Production
A volte questo pensiero mi ritorna fuori: sarebbe interessante che Francesco De Gregori trovasse il coraggio di fare a pezzi la propria immagine, il proprio mito, smettere finalmente di proporsi come la stragrande maggioranza del suo pubblico lo vuole sentire, ed iniziare a concepire il concerto come un momento che sia assolutamente suo. Facile a dirsi, molto meno a farsi. Perché se è vero che negli ultimi anni il cantautore romano sembra intento a perseguire con tenacia il luogo comune di quelli che “Ha scritto la colonna sonora della nostra storia” (tanto che mi chiedo se fossero davvero fondati tutti i commenti che sentivo dieci e passa anni fa per cui “È antipatico, dal vivo cambia tutti i pezzi, si arrabbia se il pubblico canta” e altre cose così), è altrettanto vero che quasi mai viene in mente che questo comportamento, a lui, potrebbe anche piacere. Che sia una scelta precisa, insomma.
Che poi alla fine, se guardiamo bene, è il solito dilemma di ogni artista che abbia pubblicato più di dieci dischi e che abbia in repertorio una serie di brani immortali da poter riempire un concerto intero. Cosa faccio? Accontento i fan (che poi sono sempre la maggioranza) che vogliono sentire quelli o mi butto nel ripescaggio delle rarità, di quelli meno eseguiti, meno conosciuti, per far contenti quelli (sempre la minoranza) che conoscono a menadito il mio repertorio?
Chi mi legge regolarmente si sarà stancato di tutti questi ragionamenti. Li faccio spesso ma d’altronde non posso farci nulla: io i classici, di qualsiasi artista che abbia visto dal vivo più di due volte, non li reggo mai. Per me ogni concerto dovrebbe darti qualcosa di nuovo che non c’è stato la volta precedente. Nel momento in cui diventa una replica, perde la sua utilità.
Francesco De Gregori lo aveva detto esplicitamente, nel presentare lo spettacolo che ha portato in giro per l’Italia lo scorso autunno: “Accontenteremo tutti”. Abbastanza vero ma non del tutto, come sa chi di quei concerti ne ha visto almeno uno o che ha letto ciò che è stato scritto a riguardo.
A questo giro va più o meno allo stesso modo. Il tour, denominato semplicemente “Tour 2018”, non presenta in realtà uno spettacolo nuovo di zecca, ma è semplicemente la leg estiva di quello che ci siamo visti nel 2017.
Lo si capisce soprattutto dal fatto che la formula è la stessa: band di quattro elementi, senza batteria, il repertorio riletto in chiave prevalentemente acustica, col pianoforte di Carlo Gaudiello ad affiancare il basso del “capobanda” Guido Guglielminetti nelle tessiture ritmiche e il dialogo costante tra la chitarra di Paolo Giovenchi e la Pedal Steel del sempre ottimo Alex Valle (che utilizza in più di un’occasione anche Dobro e Banjo) a ricamare la maggior parte delle melodie.
Una formula interessante, inusuale per Francesco e che quest’autunno ha dimostrato di funzionare piuttosto bene anche se, ora che rivediamo lo spettacolo, ci rendiamo conto che alcuni episodi come “Vai in Africa Celestino” o “Cose”, quest’ultimo eseguita dal solo Francesco alla chitarra, avrebbero reso di più con il solito arrangiamento corposo e rockeggiante con cui erano state proposte negli anni precedenti. In generale, senza nulla togliere alla bravura dei musicisti e alla resa live di un artista che mostra di essere sempre in splendida forma, questo assetto non permette particolari variazioni e in più di un’occasione si avverte il rischio di un’eccessiva uniformità.
Per il resto, tutto dipende da quante volte avete visto Francesco De Gregori dal vivo, da quanto bene conoscete il suo repertorio e da quale tipo di aspettative avete. I classici immortali, quelli che hanno contribuito a definire una generazione, quelli che tutti conoscono, anche quelli che non hanno idea di chi le abbia scritte, ci sono bene o male tutti. Se brani come “Pablo”, “Il bandito e il campione” o “Buffalo Bill” risultano latitanti da anni, le varie “Rimmel” (che questa sera chiude il concerto e viene cantata con un’inflessione vocale vagamente dylaniana), “La donna cannone”, “Alice”, “Buonanotte fiorellino”, “Titanic”, “Generale”, “La leva calcistica della classe ‘68” ci sono tutte (per fortuna a questo giro manca “Viva l’Italia”, che ho sempre trovato banale e stucchevole) e come al solito sono quelle a cui il pubblico (numeroso e variegato anche stasera, con un’età media per nulla elevata) tributa la maggior parte degli applausi e per cui sfodera più volentieri il telefonino.
Quando canta queste, Francesco è visibilmente compiaciuto, cerca volentieri l’ovazione, chiama il sing along… insomma, si vede benissimo che per lui non si tratta di un semplice pagare pegno al successo ma di una modalità privilegiata con cui creare una connessione, una sinergia con chi lo viene a vedere. E questo, direi, è pienamente rispettabile, anche se non è ciò che io cerco ad un suo concerto.
C’è anche altro, per fortuna. Il De Gregori degli anni ’90 e dei primi Duemila ha attraversato una fase di forma superlativa e, non mi stancherò mai di scriverlo, parecchio del repertorio di quel periodo rivaleggia senza nessun problema con la gloriosa fase dei ’70. È allora bellissimo ritrovarsi in scaletta pezzi come “Il cuoco di Salò”, “Gambadilegno a Parigi” (io la metto tra le sue dieci più belle di sempre), “Numeri da scaricare”, “Sempre e per sempre”, “Falso movimento”, accanto ad altri ripescaggi più datati come “Buenos Aires”, Raggio di sole”, “Bambini venite parvulos” (graditissima, anche se una versione più elettrica le avrebbe reso maggior giustizia) e “Santa Lucia”, che potrebbe essere considerata un classico ma che viene suonata piuttosto raramente.
Insomma, anche i fan più esigenti hanno avuto la loro parte di soddisfazione. Semmai, ed è per quanto mi riguarda la critica più grande, si sarebbe potuto pretendere una setlist diversa da quella di quest’autunno: se hai centinaia di brani tra cui scegliere, cambiarne solo tre forse non è l’opzione migliore (a Roma, la prima sera, era stata provata anche “Miramare”, purtroppo non più riproposta in seguito) ma è anche vero che non tutti lo vanno a vedere più di una volta all’anno e che è giusto che un artista si preoccupi di mettere in piedi uno spettacolo che sia il più rodato possibile.
Lasciando quindi perdere gli scrupoli da completista invasato delle scalette quale io sono, bisogna dire che il concerto del Carroponte è stato un gran bel concerto. Francesco era in forma, allegro e non mi sembra secondario sottolineare come abbia finalmente recuperato il suo look classico e rassicurante, barba, cappello a tesa larga e occhiali da sole. Nel finale è arrivato il solito duetto con la moglie Chicca in “Anema e còre”, sempre molto semplice e spontaneo anche se musicalmente trascurabile. La donna rimane poi sul palco a suonare il tamburello su “Rimmel”; curioso, tra l’altro, come il secondo ritornello del brano venga tagliato, sostituito da un giro a vuoto e da un solo di armonica. Tentativo di negare al pubblico l’effetto coro proprio sul finale? Difficile, direi impossibile che sia andata così. Più facile ipotizzare una mera scelta artistica.
Ci sono ancora alcune date di questo “Tour 2018”. Dopodiché, per Francesco De Gregori e la sua band si chiuderà un’altra fase. Ipotizzare la scrittura di un nuovo disco credo sia un atto più che legittimo. “Sulla strada” è del 2012 e non vorremmo certo che venga ricordato come il suo ultimo…
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