
Articolo di Luca Franceschini immagini sonore di Andrea Furlan
Che una band in giro da più di vent’anni veda ancora i propri lavori in studio come un campo di sperimentazione, come un itinerario che si dipani nei meandri della creatività, senza concedere nulla al manierismo e alle soluzioni di comodo, non è proprio quel che si dice un fenomeno comune.
Eppure i Low l’hanno fatto: Double Negative, uscito a settembre, è il loro dodicesimo disco in studio, senza considerare ep e pubblicazioni di altra sorta, ed è probabilmente il migliore della loro carriera. Una frase del genere suona esagerata perché, normalmente, quando il ciclo vitale di una band supera il decennio, si è abituati a considerare come imprescindibili le pietre miliari, mentre si danno un po’ per scontate le cose più recenti. Nel caso del trio del Minnesota, però, l’ultimo lavoro in studio ha scombinato le carte in maniera sbalorditiva, spezzando melodie, destrutturando la forma canzone, saturando di effetti le chitarre, filtrando le voci e sconfinando spesso nei territori dell’Ambient. Il tutto senza mai rinunciare al proprio marchio di fabbrica perché le canzoni, seppure vestite in maniera da apparire a tratti irriconoscibili, sono sempre lì e sono sempre meravigliose. Un lavoro importante, dunque, destinato a rimanere come uno dei punti più vivi di una discografia peraltro priva di momenti sottotono e ancora più spiazzante se si pensa che arriva dopo due lavori come The Invisible Way e Ones and Sixes, probabilmente i più accessibili mai realizzati dal gruppo.

Questa data italiana era molto attesa soprattutto perché all’ultimo tour il nostro paese era stato lasciato indietro e la voglia di rivederli era dunque comprensibilmente più alta del solito.
Ottima anche la location scelta: il Teatro Dal Verme è un luogo raccolto ma elegante, comodo e dotato di un’ottima acustica; ideale per una band come la loro, da sempre attenta ai suoni e foriera di una proposta che necessita di una situazione ideale per essere fruita.
Peccato solo che l’odiosa abitudine dei milanesi di arrivare ovunque dopo le 21 e la decisione forse non impeccabile di fare iniziare il tutto troppo presto, abbia fatto sì che il set di Nadine Khouri si svolgesse davanti ad una platea mezza vuota, in un continuo via vai di gente che raggiungeva i propri posti o, peggio, intenta a salutare rumorosamente gli amici.
Dal canto suo, la cantautrice libanese non si scompone e fa la sua mezz’ora con grande eleganza e professionalità, dimostrandosi molto contenta di essere in Italia (“È la mia prima volta!” dice) e rivolgendosi spesso ai presenti con brevi frasi nella nostra lingua.

I brani sono quelli di The Salted Air, pubblicato lo scorso anno e frutto del sodalizio artistico con John Parish, che l’ha scoperta e le ha permesso di compiere un notevole salto di qualità, lanciando di fatto la sua carriera (aveva già inciso un disco nel 2002 ma era finito totalmente nel dimenticatoio). Vengono proposti anche i due singoli usciti nell’anno in corso, To Sleep e A New Dawn, ipotetico preludio ad un nuovo album che al momento non è stato però ancora annunciato.
Suona da sola, accompagnandosi alla chitarra e lanciando qualche giro di accompagnamento con la Loop Station. Un set minimale, così come minimale è la sua musica, persa nell’eco crepuscolare di melodie a cavallo tra il Folk e lo Slowcore, sorta di ideale incrocio tra Leonard Cohen e i Red House Painters. Non è roba di facile fruizione ma bisogna riconoscerle un certo talento compositivo, anche se forse a livello di performance live deve ancora un po’ migliorarsi. Artista da tenere d’occhio, indubbiamente ha qualcosa in più per potere emergere.

Mi sarei aspettato un allestimento più ingente a livello di spazio e invece anche i Low vanno ad occupare la piccola porzione del palco appena lasciata libera dalla Khouri. Arrivano con i loro strumenti e si mettono a semicerchio accanto ai piccoli amplificatori: Alan Sparhawk a sinistra, Mimi Parker al centro dietro la sua batteria, Steve Garrington a destra. Il quadro è intimo e quasi dimesso, non certo quello che ci si aspetterebbe da un concerto in teatro dove, tra le altre cose si è abituati a vedere un allestimento curato e qualche effetto scenico. Non è così nel loro caso: i Low sono da sempre in tre e suonano la loro musica attraverso gli strumenti che si sono portati dietro. Niente basi, niente overdubs: a parte qualche piccola parte mandata in Loop, quel che sentiremo in queste due ore è frutto unicamente delle note prodotte da due voci, una chitarra, una batteria e un basso. E saranno due ore di livello assoluto. Può sembrare esagerato scriverlo, può sembrare retorico ma i Low dal vivo sono una delle esperienze estetiche più potenti che si possano fare.
Alan Sparhawk è un chitarrista fenomenale, un impressionante creatore di mondi sonori, per cui tra il sapiente uso dell’effettistica e il suo tocco unico, la costruzione melodica dei pezzi è viva e scintillante più che mai. Basso e batteria accompagnano il tutto in maniera ordinata e tutto sommato semplice anche se la naturalezza con cui i tre strumenti si compenetrano è impressionante.

Quel che colpisce di più, comunque, sono le armonie vocali. Su disco le senti e le apprezzi, sai perfettamente che il loro marchio di fabbrica è quello, che la loro musica vive dell’equilibrio tra una voce maschile ed una femminile che spesso sono presenti insieme. Ma quando poi lo ascolti dal vivo, è tutta un’altra roba. Non si può cantare così, non è umanamente possibile. Non è solo la bellezza delle voci, il controllo, la precisione delle armonizzazioni. È che c’è proprio un’altra cosa dentro. Una bellezza che non si può spiegare, che non è riconducibile alla mera somma dei fattori in gioco. Alan e Mimi cantano con una voce sola, come potrebbe fare solo chi si conosce da una vita intera e che ha scelto di viverla insieme, questa vita. Che siano marito e moglie potrebbe forse aiutare a spiegare, che dal 1993 facciano musica insieme potrebbe essere un indizio. La verità è che è inutile fare troppi discorsi: un concerto dei Low è un’esperienza che va goduta in totale immersione, senza cercare di razionalizzare troppo.
Del resto anche loro lo sanno e vanno via dritti senza quasi mai parlare, quasi senza bisogno di scegliere che cosa riproporre del loro vastissimo repertorio, perché con la capacità di scrittura che hanno, ogni canzone è in pratica un capolavoro.

L’inizio è affidato ad una versione totalmente riarrangiata e “pulita” di Quorum, che apre poi ad un breve excursus sul repertorio più recente, con No Comprende, Plastic Cup e The Innocents. Il nuovo disco viene suonato quasi per intero, anche se viene spezzettato nel corso della setlist, una scelta che a mio parere non si è rivelata azzeccatissima (è un album che, per sua natura, sarebbe più adatto ad essere suonato dall’inizio alla fine senza interruzioni). Ciononostante, la resa delle varie Fly, Tempest, Always Up, dei singoli Poor Sucker e Disarray, della scurissima Rome (Always in the Dark) è decisamente superlativa. È un gruppo che neppure ha troppa paura di osare e che passa con disinvoltura dalle suggestioni acustiche di Dragonfly ad una versione fiume di Do You Know How To Waltz, con una lunghissima coda lisergica ed ipnotica che sfocia poi naturalmente in una Lazy che arriva direttamente dagli esordi Slowcore e che lascia senza fiato per quanto è intensa e delicata insieme.
Splendida anche Holly Ghost, cantata dalla Parker in solitaria e sempre vincenti anche cose più semplici come Lies e Spanish Translation.

Nel finale, dopo che i nostri si sono apparentemente congedati con Dancing and Fire e Disarray, Alan ringrazia tutti, dicendo che l’affetto del pubblico è un qualcosa che scalda loro il cuore e che permette di guardare il futuro con speranza, non con l’angoscia che sembra predominante in questi ultimi tempi. E poi dice ironicamente: “Siccome siete seduti belli comodi, vi facciamo altri due pezzi invece che uno solo!”. Spetta così a Will the Night e a Murderer mettere la parola fine ad un concerto che verrà ricordato per sempre da tutti quelli che c’erano (in platea anche tanti nomi illustri del nostro panorama musicale, da Francesco Bianconi a Riccardo Sinigallia, da Vittorio Cosma a Taketo Gohara).
I Low sono un’eccellenza assoluta del mondo musicale contemporaneo. Non ci sono infatti così tante band che hanno saputo coniugare una discografia vasta e senza cedimenti, una continua esplorazione di territori musicali diversi e una resa live che sarebbe quasi riduttivo definire perfetta. Non resta da sperare che rimangano attivi a lungo e che ripassino al più presto dalle nostre parti.










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